Divina Commedia di Dante: Inferno
by
Dante Alighieri

Part 3 out of 4



conosci tu alcun che sia latino
sotto la pece?». E quelli: «I’ mi partii,

poco è, da un che fu di là vicino.
Così foss’ io ancor con lui coperto,
ch’i’ non temerei unghia né uncino!».

E Libicocco «Troppo avem sofferto»,
disse; e preseli ’l braccio col runciglio,
sì che, stracciando, ne portò un lacerto.

Draghignazzo anco i volle dar di piglio
giuso a le gambe; onde ’l decurio loro
si volse intorno intorno con mal piglio.

Quand’ elli un poco rappaciati fuoro,
a lui, ch’ancor mirava sua ferita,
domandò ’l duca mio sanza dimoro:

«Chi fu colui da cui mala partita
di’ che facesti per venire a proda?».
Ed ei rispuose: «Fu frate Gomita,

quel di Gallura, vasel d’ogne froda,
ch’ebbe i nemici di suo donno in mano,
e fé sì lor, che ciascun se ne loda.

Danar si tolse e lasciolli di piano,
sì com’ e’ dice; e ne li altri offici anche
barattier fu non picciol, ma sovrano.

Usa con esso donno Michel Zanche
di Logodoro; e a dir di Sardigna
le lingue lor non si sentono stanche.

Omè, vedete l’altro che digrigna;
i’ direi anche, ma i’ temo ch’ello
non s’apparecchi a grattarmi la tigna».

E ’l gran proposto, vòlto a Farfarello
che stralunava li occhi per fedire,
disse: «Fatti ’n costà, malvagio uccello!».

«Se voi volete vedere o udire»,
ricominciò lo spaürato appresso,
«Toschi o Lombardi, io ne farò venire;

ma stieno i Malebranche un poco in cesso,
sì ch’ei non teman de le lor vendette;
e io, seggendo in questo loco stesso,

per un ch’io son, ne farò venir sette
quand’ io suffolerò, com’ è nostro uso
di fare allor che fori alcun si mette».

Cagnazzo a cotal motto levò ’l muso,
crollando ’l capo, e disse: «Odi malizia
ch’elli ha pensata per gittarsi giuso!».

Ond’ ei, ch’avea lacciuoli a gran divizia,
rispuose: «Malizioso son io troppo,
quand’ io procuro a’ mia maggior trestizia».

Alichin non si tenne e, di rintoppo
a li altri, disse a lui: «Se tu ti cali,
io non ti verrò dietro di gualoppo,

ma batterò sovra la pece l’ali.
Lascisi ’l collo, e sia la ripa scudo,
a veder se tu sol più di noi vali».

O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
ciascun da l’altra costa li occhi volse,
quel prima, ch’a ciò fare era più crudo.

Lo Navarrese ben suo tempo colse;
fermò le piante a terra, e in un punto
saltò e dal proposto lor si sciolse.

Di che ciascun di colpa fu compunto,
ma quei più che cagion fu del difetto;
però si mosse e gridò: «Tu se’ giunto!».

Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto
non potero avanzar; quelli andò sotto,
e quei drizzò volando suso il petto:

non altrimenti l’anitra di botto,
quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa,
ed ei ritorna sù crucciato e rotto.

Irato Calcabrina de la buffa,
volando dietro li tenne, invaghito
che quei campasse per aver la zuffa;

e come ’l barattier fu disparito,
così volse li artigli al suo compagno,
e fu con lui sopra ’l fosso ghermito.

Ma l’altro fu bene sparvier grifagno
ad artigliar ben lui, e amendue
cadder nel mezzo del bogliente stagno.

Lo caldo sghermitor sùbito fue;
ma però di levarsi era neente,
sì avieno inviscate l’ali sue.

Barbariccia, con li altri suoi dolente,
quattro ne fé volar da l’altra costa
con tutt’ i raffi, e assai prestamente

di qua, di là discesero a la posta;
porser li uncini verso li ’mpaniati,
ch’eran già cotti dentro da la crosta.

E noi lasciammo lor così ’mpacciati.



Inferno · Canto XXIII


Taciti, soli, sanza compagnia
n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo,
come frati minor vanno per via.

Vòlt’ era in su la favola d’Isopo
lo mio pensier per la presente rissa,
dov’ el parlò de la rana e del topo;

ché più non si pareggia ‘mo’ e ‘issa’
che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia
principio e fine con la mente fissa.

E come l’un pensier de l’altro scoppia,
così nacque di quello un altro poi,
che la prima paura mi fé doppia.

Io pensava così: ‘Questi per noi
sono scherniti con danno e con beffa
sì fatta, ch’assai credo che lor nòi.

Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa,
ei ne verranno dietro più crudeli
che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa’.

Già mi sentia tutti arricciar li peli
de la paura e stava in dietro intento,
quand’ io dissi: «Maestro, se non celi

te e me tostamente, i’ ho pavento
d’i Malebranche. Noi li avem già dietro;
io li ’magino sì, che già li sento».

E quei: «S’i’ fossi di piombato vetro,
l’imagine di fuor tua non trarrei
più tosto a me, che quella dentro ’mpetro.

Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei,
con simile atto e con simile faccia,
sì che d’intrambi un sol consiglio fei.

S’elli è che sì la destra costa giaccia,
che noi possiam ne l’altra bolgia scendere,
noi fuggirem l’imaginata caccia».

Già non compié di tal consiglio rendere,
ch’io li vidi venir con l’ali tese
non molto lungi, per volerne prendere.

Lo duca mio di sùbito mi prese,
come la madre ch’al romore è desta
e vede presso a sé le fiamme accese,

che prende il figlio e fugge e non s’arresta,
avendo più di lui che di sé cura,
tanto che solo una camiscia vesta;

e giù dal collo de la ripa dura
supin si diede a la pendente roccia,
che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura.

Non corse mai sì tosto acqua per doccia
a volger ruota di molin terragno,
quand’ ella più verso le pale approccia,

come ’l maestro mio per quel vivagno,
portandosene me sovra ’l suo petto,
come suo figlio, non come compagno.

A pena fuoro i piè suoi giunti al letto
del fondo giù, ch’e’ furon in sul colle
sovresso noi; ma non lì era sospetto:

ché l’alta provedenza che lor volle
porre ministri de la fossa quinta,
poder di partirs’ indi a tutti tolle.

Là giù trovammo una gente dipinta
che giva intorno assai con lenti passi,
piangendo e nel sembiante stanca e vinta.

Elli avean cappe con cappucci bassi
dinanzi a li occhi, fatte de la taglia
che in Clugnì per li monaci fassi.

Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia;
ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,
che Federigo le mettea di paglia.

Oh in etterno faticoso manto!
Noi ci volgemmo ancor pur a man manca
con loro insieme, intenti al tristo pianto;

ma per lo peso quella gente stanca
venìa sì pian, che noi eravam nuovi
di compagnia ad ogne mover d’anca.

Per ch’io al duca mio: «Fa che tu trovi
alcun ch’al fatto o al nome si conosca,
e li occhi, sì andando, intorno movi».

E un che ’ntese la parola tosca,
di retro a noi gridò: «Tenete i piedi,
voi che correte sì per l’aura fosca!

Forse ch’avrai da me quel che tu chiedi».
Onde ’l duca si volse e disse: «Aspetta,
e poi secondo il suo passo procedi».

Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta
de l’animo, col viso, d’esser meco;
ma tardavali ’l carco e la via stretta.

Quando fuor giunti, assai con l’occhio bieco
mi rimiraron sanza far parola;
poi si volsero in sé, e dicean seco:

«Costui par vivo a l’atto de la gola;
e s’e’ son morti, per qual privilegio
vanno scoperti de la grave stola?».

Poi disser me: «O Tosco, ch’al collegio
de l’ipocriti tristi se’ venuto,
dir chi tu se’ non avere in dispregio».

E io a loro: «I’ fui nato e cresciuto
sovra ’l bel fiume d’Arno a la gran villa,
e son col corpo ch’i’ ho sempre avuto.

Ma voi chi siete, a cui tanto distilla
quant’ i’ veggio dolor giù per le guance?
e che pena è in voi che sì sfavilla?».

E l’un rispuose a me: «Le cappe rance
son di piombo sì grosse, che li pesi
fan così cigolar le lor bilance.

Frati godenti fummo, e bolognesi;
io Catalano e questi Loderingo
nomati, e da tua terra insieme presi

come suole esser tolto un uom solingo,
per conservar sua pace; e fummo tali,
ch’ancor si pare intorno dal Gardingo».

Io cominciai: «O frati, i vostri mali . . . »;
ma più non dissi, ch’a l’occhio mi corse
un, crucifisso in terra con tre pali.

Quando mi vide, tutto si distorse,
soffiando ne la barba con sospiri;
e ’l frate Catalan, ch’a ciò s’accorse,

mi disse: «Quel confitto che tu miri,
consigliò i Farisei che convenia
porre un uom per lo popolo a’ martìri.

Attraversato è, nudo, ne la via,
come tu vedi, ed è mestier ch’el senta
qualunque passa, come pesa, pria.

E a tal modo il socero si stenta
in questa fossa, e li altri dal concilio
che fu per li Giudei mala sementa».

Allor vid’ io maravigliar Virgilio
sovra colui ch’era disteso in croce
tanto vilmente ne l’etterno essilio.

Poscia drizzò al frate cotal voce:
«Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci
s’a la man destra giace alcuna foce

onde noi amendue possiamo uscirci,
sanza costrigner de li angeli neri
che vegnan d’esto fondo a dipartirci».

Rispuose adunque: «Più che tu non speri
s’appressa un sasso che da la gran cerchia
si move e varca tutt’ i vallon feri,

salvo che ’n questo è rotto e nol coperchia;
montar potrete su per la ruina,
che giace in costa e nel fondo soperchia».

Lo duca stette un poco a testa china;
poi disse: «Mal contava la bisogna
colui che i peccator di qua uncina».

E ’l frate: «Io udi’ già dire a Bologna
del diavol vizi assai, tra ’ quali udi’
ch’elli è bugiardo, e padre di menzogna».

Appresso il duca a gran passi sen gì,
turbato un poco d’ira nel sembiante;
ond’ io da li ’ncarcati mi parti’

dietro a le poste de le care piante.



Inferno · Canto XXIV


In quella parte del giovanetto anno
che ’l sole i crin sotto l’Aquario tempra
e già le notti al mezzo dì sen vanno,

quando la brina in su la terra assempra
l’imagine di sua sorella bianca,
ma poco dura a la sua penna tempra,

lo villanello a cui la roba manca,
si leva, e guarda, e vede la campagna
biancheggiar tutta; ond’ ei si batte l’anca,

ritorna in casa, e qua e là si lagna,
come ’l tapin che non sa che si faccia;
poi riede, e la speranza ringavagna,

veggendo ’l mondo aver cangiata faccia
in poco d’ora, e prende suo vincastro
e fuor le pecorelle a pascer caccia.

Così mi fece sbigottir lo mastro
quand’ io li vidi sì turbar la fronte,
e così tosto al mal giunse lo ’mpiastro;

ché, come noi venimmo al guasto ponte,
lo duca a me si volse con quel piglio
dolce ch’io vidi prima a piè del monte.

Le braccia aperse, dopo alcun consiglio
eletto seco riguardando prima
ben la ruina, e diedemi di piglio.

E come quei ch’adopera ed estima,
che sempre par che ’nnanzi si proveggia,
così, levando me sù ver’ la cima

d’un ronchione, avvisava un’altra scheggia
dicendo: «Sovra quella poi t’aggrappa;
ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia».

Non era via da vestito di cappa,
ché noi a pena, ei lieve e io sospinto,
potavam sù montar di chiappa in chiappa.

E se non fosse che da quel precinto
più che da l’altro era la costa corta,
non so di lui, ma io sarei ben vinto.

Ma perché Malebolge inver’ la porta
del bassissimo pozzo tutta pende,
lo sito di ciascuna valle porta

che l’una costa surge e l’altra scende;
noi pur venimmo al fine in su la punta
onde l’ultima pietra si scoscende.

La lena m’era del polmon sì munta
quand’ io fui sù, ch’i’ non potea più oltre,
anzi m’assisi ne la prima giunta.

«Omai convien che tu così ti spoltre»,
disse ’l maestro; «ché, seggendo in piuma,
in fama non si vien, né sotto coltre;

sanza la qual chi sua vita consuma,
cotal vestigio in terra di sé lascia,
qual fummo in aere e in acqua la schiuma.

E però leva sù; vinci l’ambascia
con l’animo che vince ogne battaglia,
se col suo grave corpo non s’accascia.

Più lunga scala convien che si saglia;
non basta da costoro esser partito.
Se tu mi ’ntendi, or fa sì che ti vaglia».

Leva’mi allor, mostrandomi fornito
meglio di lena ch’i’ non mi sentia,
e dissi: «Va, ch’i’ son forte e ardito».

Su per lo scoglio prendemmo la via,
ch’era ronchioso, stretto e malagevole,
ed erto più assai che quel di pria.

Parlando andava per non parer fievole;
onde una voce uscì de l’altro fosso,
a parole formar disconvenevole.

Non so che disse, ancor che sovra ’l dosso
fossi de l’arco già che varca quivi;
ma chi parlava ad ire parea mosso.

Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi
non poteano ire al fondo per lo scuro;
per ch’io: «Maestro, fa che tu arrivi

da l’altro cinghio e dismontiam lo muro;
ché, com’ i’ odo quinci e non intendo,
così giù veggio e neente affiguro».

«Altra risposta», disse, «non ti rendo
se non lo far; ché la dimanda onesta
si de’ seguir con l’opera tacendo».

Noi discendemmo il ponte da la testa
dove s’aggiugne con l’ottava ripa,
e poi mi fu la bolgia manifesta:

e vidivi entro terribile stipa
di serpenti, e di sì diversa mena
che la memoria il sangue ancor mi scipa.

Più non si vanti Libia con sua rena;
ché se chelidri, iaculi e faree
produce, e cencri con anfisibena,

né tante pestilenzie né sì ree
mostrò già mai con tutta l’Etïopia
né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.

Tra questa cruda e tristissima copia
corrëan genti nude e spaventate,
sanza sperar pertugio o elitropia:

con serpi le man dietro avean legate;
quelle ficcavan per le ren la coda
e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate.

Ed ecco a un ch’era da nostra proda,
s’avventò un serpente che ’l trafisse
là dove ’l collo a le spalle s’annoda.

Né O sì tosto mai né I si scrisse,
com’ el s’accese e arse, e cener tutto
convenne che cascando divenisse;

e poi che fu a terra sì distrutto,
la polver si raccolse per sé stessa
e ’n quel medesmo ritornò di butto.

Così per li gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa;

erba né biado in sua vita non pasce,
ma sol d’incenso lagrime e d’amomo,
e nardo e mirra son l’ultime fasce.

E qual è quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch’a terra il tira,
o d’altra oppilazion che lega l’omo,

quando si leva, che ’ntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia
ch’elli ha sofferta, e guardando sospira:

tal era ’l peccator levato poscia.
Oh potenza di Dio, quant’ è severa,
che cotai colpi per vendetta croscia!

Lo duca il domandò poi chi ello era;
per ch’ei rispuose: «Io piovvi di Toscana,
poco tempo è, in questa gola fiera.

Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana».

E ïo al duca: «Dilli che non mucci,
e domanda che colpa qua giù ’l pinse;
ch’io ’l vidi uomo di sangue e di crucci».

E ’l peccator, che ’ntese, non s’infinse,
ma drizzò verso me l’animo e ’l volto,
e di trista vergogna si dipinse;

poi disse: «Più mi duol che tu m’hai colto
ne la miseria dove tu mi vedi,
che quando fui de l’altra vita tolto.

Io non posso negar quel che tu chiedi;
in giù son messo tanto perch’ io fui
ladro a la sagrestia d’i belli arredi,

e falsamente già fu apposto altrui.
Ma perché di tal vista tu non godi,
se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,

apri li orecchi al mio annunzio, e odi.
Pistoia in pria d’i Neri si dimagra;
poi Fiorenza rinova gente e modi.

Tragge Marte vapor di Val di Magra
ch’è di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impetüosa e agra

sovra Campo Picen fia combattuto;
ond’ ei repente spezzerà la nebbia,
sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto.

E detto l’ho perché doler ti debbia!».



Inferno · Canto XXV


Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!».

Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
perch’ una li s’avvolse allora al collo,
come dicesse ‘Non vo’ che più diche’;

e un’altra a le braccia, e rilegollo,
ribadendo sé stessa sì dinanzi,
che non potea con esse dare un crollo.

Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi
d’incenerarti sì che più non duri,
poi che ’n mal fare il seme tuo avanzi?

Per tutt’ i cerchi de lo ’nferno scuri
non vidi spirto in Dio tanto superbo,
non quel che cadde a Tebe giù da’ muri.

El si fuggì che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: «Ov’ è, ov’ è l’acerbo?».

Maremma non cred’ io che tante n’abbia,
quante bisce elli avea su per la groppa
infin ove comincia nostra labbia.

Sovra le spalle, dietro da la coppa,
con l’ali aperte li giacea un draco;
e quello affuoca qualunque s’intoppa.

Lo mio maestro disse: «Questi è Caco,
che, sotto ’l sasso di monte Aventino,
di sangue fece spesse volte laco.

Non va co’ suoi fratei per un cammino,
per lo furto che frodolente fece
del grande armento ch’elli ebbe a vicino;

onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d’Ercule, che forse
gliene diè cento, e non sentì le diece».

Mentre che sì parlava, ed el trascorse,
e tre spiriti venner sotto noi,
de’ quai né io né ’l duca mio s’accorse,

se non quando gridar: «Chi siete voi?»;
per che nostra novella si ristette,
e intendemmo pur ad essi poi.

Io non li conoscea; ma ei seguette,
come suol seguitar per alcun caso,
che l’un nomar un altro convenette,

dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»;
per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento,
mi puosi ’l dito su dal mento al naso.

Se tu se’ or, lettore, a creder lento
ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia,
ché io che ’l vidi, a pena il mi consento.

Com’ io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei piè si lancia
dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia.

Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia
e con li anterïor le braccia prese;
poi li addentò e l’una e l’altra guancia;

li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra ’mbedue
e dietro per le ren sù la ritese.

Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber sì, come l’orribil fiera
per l’altrui membra avviticchiò le sue.

Poi s’appiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
né l’un né l’altro già parea quel ch’era:

come procede innanzi da l’ardore,
per lo papiro suso, un color bruno
che non è nero ancora e ’l bianco more.

Li altri due ’l riguardavano, e ciascuno
gridava: «Omè, Agnel, come ti muti!
Vedi che già non se’ né due né uno».

Già eran li due capi un divenuti,
quando n’apparver due figure miste
in una faccia, ov’ eran due perduti.

Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso
divenner membra che non fuor mai viste.

Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l’imagine perversa
parea; e tal sen gio con lento passo.

Come ’l ramarro sotto la gran fersa
dei dì canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa,

sì pareva, venendo verso l’epe
de li altri due, un serpentello acceso,
livido e nero come gran di pepe;

e quella parte onde prima è preso
nostro alimento, a l’un di lor trafisse;
poi cadde giuso innanzi lui disteso.

Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse;
anzi, co’ piè fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre l’assalisse.

Elli ’l serpente e quei lui riguardava;
l’un per la piaga e l’altro per la bocca
fummavan forte, e ’l fummo si scontrava.

Taccia Lucano ormai là dov’ e’ tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel ch’or si scocca.

Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,
ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo ’nvidio;

ché due nature mai a fronte a fronte
non trasmutò sì ch’amendue le forme
a cambiar lor matera fosser pronte.

Insieme si rispuosero a tai norme,
che ’l serpente la coda in forca fesse,
e ’l feruto ristrinse insieme l’orme.

Le gambe con le cosce seco stesse
s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura
non facea segno alcun che si paresse.

Togliea la coda fessa la figura
che si perdeva là, e la sua pelle
si facea molle, e quella di là dura.

Io vidi intrar le braccia per l’ascelle,
e i due piè de la fiera, ch’eran corti,
tanto allungar quanto accorciavan quelle.

Poscia li piè di rietro, insieme attorti,
diventaron lo membro che l’uom cela,
e ’l misero del suo n’avea due porti.

Mentre che ’l fummo l’uno e l’altro vela
di color novo, e genera ’l pel suso
per l’una parte e da l’altra il dipela,

l’un si levò e l’altro cadde giuso,
non torcendo però le lucerne empie,
sotto le quai ciascun cambiava muso.

Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie,
e di troppa matera ch’in là venne
uscir li orecchi de le gote scempie;

ciò che non corse in dietro e si ritenne
di quel soverchio, fé naso a la faccia
e le labbra ingrossò quanto convenne.

Quel che giacëa, il muso innanzi caccia,
e li orecchi ritira per la testa
come face le corna la lumaccia;

e la lingua, ch’avëa unita e presta
prima a parlar, si fende, e la forcuta
ne l’altro si richiude; e ’l fummo resta.

L’anima ch’era fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
e l’altro dietro a lui parlando sputa.

Poscia li volse le novelle spalle,
e disse a l’altro: «I’ vo’ che Buoso corra,
com’ ho fatt’ io, carpon per questo calle».

Così vid’ io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusi
la novità se fior la penna abborra.

E avvegna che li occhi miei confusi
fossero alquanto e l’animo smagato,
non poter quei fuggirsi tanto chiusi,

ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, di tre compagni
che venner prima, non era mutato;

l’altr’ era quel che tu, Gaville, piagni.



Inferno · Canto XXVI


Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ’nferno tuo nome si spande!

Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.

Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.

E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com’ più m’attempo.

Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n’avea fatto iborni a scender pria,
rimontò ’l duca mio e trasse mee;

e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non si spedia.

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,

perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi.

Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ’l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,

come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov’ e’ vendemmia e ara:

di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’ io m’accorsi
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.

E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ’l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,

che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:

tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.

Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’ esser urto.

E ’l duca che mi vide tanto atteso,
disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso».

«Maestro mio», rispuos’ io, «per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:

chi è ’n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’ Eteòcle col fratel fu miso?».

Rispuose a me: «Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira;

e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.

Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta».

«S’ei posson dentro da quelle faville
parlar», diss’ io, «maestro, assai ten priego
e ripriego, che ’l priego vaglia mille,

che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver’ lei mi piego!».

Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.

Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’ e’ fuor greci, forse del tuo detto».

Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:

«O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco

quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi».

Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;

indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: «Quando

mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,

né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,

vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;

ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.

Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’ Ercule segnò li suoi riguardi

acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.

“O frati”, dissi “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia

d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.

Li miei compagni fec’ io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.

Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,

quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’ altrui piacque,

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».



Inferno · Canto XXVII


Già era dritta in sù la fiamma e queta
per non dir più, e già da noi sen gia
con la licenza del dolce poeta,

quand’ un’altra, che dietro a lei venìa,
ne fece volger li occhi a la sua cima
per un confuso suon che fuor n’uscia.

Come ’l bue cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto,
che l’avea temperato con sua lima,

mugghiava con la voce de l’afflitto,
sì che, con tutto che fosse di rame,
pur el pareva dal dolor trafitto;

così, per non aver via né forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio
si convertïan le parole grame.

Ma poscia ch’ebber colto lor vïaggio
su per la punta, dandole quel guizzo
che dato avea la lingua in lor passaggio,

udimmo dire: «O tu a cu’ io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
dicendo “Istra ten va, più non t’adizzo”,

perch’ io sia giunto forse alquanto tardo,
non t’incresca restare a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo!

Se tu pur mo in questo mondo cieco
caduto se’ di quella dolce terra
latina ond’ io mia colpa tutta reco,

dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;
ch’io fui d’i monti là intra Orbino
e ’l giogo di che Tever si diserra».

Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,
dicendo: «Parla tu; questi è latino».

E io, ch’avea già pronta la risposta,
sanza indugio a parlare incominciai:
«O anima che se’ là giù nascosta,

Romagna tua non è, e non fu mai,
sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni;
ma ’n palese nessuna or vi lasciai.

Ravenna sta come stata è molt’ anni:
l’aguglia da Polenta la si cova,
sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.

La terra che fé già la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova.

E ’l mastin vecchio e ’l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
là dove soglion fan d’i denti succhio.

Le città di Lamone e di Santerno
conduce il lïoncel dal nido bianco,
che muta parte da la state al verno.

E quella cu’ il Savio bagna il fianco,
così com’ ella sie’ tra ’l piano e ’l monte,
tra tirannia si vive e stato franco.

Ora chi se’, ti priego che ne conte;
non esser duro più ch’altri sia stato,
se ’l nome tuo nel mondo tegna fronte».

Poscia che ’l foco alquanto ebbe rugghiato
al modo suo, l’aguta punta mosse
di qua, di là, e poi diè cotal fiato:

«S’i’ credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza più scosse;

ma però che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero,
sanza tema d’infamia ti rispondo.

Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero,
credendomi, sì cinto, fare ammenda;
e certo il creder mio venìa intero,

se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,
che mi rimise ne le prime colpe;
e come e quare, voglio che m’intenda.

Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe
che la madre mi diè, l’opere mie
non furon leonine, ma di volpe.

Li accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte, e sì menai lor arte,
ch’al fine de la terra il suono uscie.

Quando mi vidi giunto in quella parte
di mia etade ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte,

ciò che pria mi piacëa, allor m’increbbe,
e pentuto e confesso mi rendei;
ahi miser lasso! e giovato sarebbe.

Lo principe d’i novi Farisei,
avendo guerra presso a Laterano,
e non con Saracin né con Giudei,

ché ciascun suo nimico era cristiano,
e nessun era stato a vincer Acri
né mercatante in terra di Soldano,

né sommo officio né ordini sacri
guardò in sé, né in me quel capestro
che solea fare i suoi cinti più macri.

Ma come Costantin chiese Silvestro
d’entro Siratti a guerir de la lebbre,
così mi chiese questi per maestro

a guerir de la sua superba febbre;
domandommi consiglio, e io tacetti
perché le sue parole parver ebbre.

E’ poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti;
finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
sì come Penestrino in terra getti.

Lo ciel poss’ io serrare e diserrare,
come tu sai; però son due le chiavi
che ’l mio antecessor non ebbe care”.

Allor mi pinser li argomenti gravi
là ’ve ’l tacer mi fu avviso ’l peggio,
e dissi: “Padre, da che tu mi lavi

di quel peccato ov’ io mo cader deggio,
lunga promessa con l’attender corto
ti farà trïunfar ne l’alto seggio”.

Francesco venne poi, com’ io fu’ morto,
per me; ma un d’i neri cherubini
li disse: “Non portar: non mi far torto.

Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini
perché diede ’l consiglio frodolente,
dal quale in qua stato li sono a’ crini;

ch’assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente”.

Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: “Forse
tu non pensavi ch’io löico fossi!”.

A Minòs mi portò; e quelli attorse
otto volte la coda al dosso duro;
e poi che per gran rabbia la si morse,

disse: “Questi è d’i rei del foco furo”;
per ch’io là dove vedi son perduto,
e sì vestito, andando, mi rancuro».

Quand’ elli ebbe ’l suo dir così compiuto,
la fiamma dolorando si partio,
torcendo e dibattendo ’l corno aguto.

Noi passamm’ oltre, e io e ’l duca mio,
su per lo scoglio infino in su l’altr’ arco
che cuopre ’l fosso in che si paga il fio

a quei che scommettendo acquistan carco.



Inferno · Canto XXVIII


Chi poria mai pur con parole sciolte
dicer del sangue e de le piaghe a pieno
ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?

Ogne lingua per certo verria meno
per lo nostro sermone e per la mente
c’hanno a tanto comprender poco seno.

S’el s’aunasse ancor tutta la gente
che già, in su la fortunata terra
di Puglia, fu del suo sangue dolente

per li Troiani e per la lunga guerra
che de l’anella fé sì alte spoglie,
come Livïo scrive, che non erra,

con quella che sentio di colpi doglie
per contastare a Ruberto Guiscardo;
e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie

a Ceperan, là dove fu bugiardo
ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,
dove sanz’ arme vinse il vecchio Alardo;

e qual forato suo membro e qual mozzo
mostrasse, d’aequar sarebbe nulla
il modo de la nona bolgia sozzo.

Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com’ io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.

Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e ’l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.

Mentre che tutto in lui veder m’attacco,
guardommi e con le man s’aperse il petto,
dicendo: «Or vedi com’ io mi dilacco!

vedi come storpiato è Mäometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
fesso nel volto dal mento al ciuffetto.

E tutti li altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fuor vivi, e però son fessi così.

Un diavolo è qua dietro che n’accisma
sì crudelmente, al taglio de la spada
rimettendo ciascun di questa risma,

quand’ avem volta la dolente strada;
però che le ferite son richiuse
prima ch’altri dinanzi li rivada.

Ma tu chi se’ che ’n su lo scoglio muse,
forse per indugiar d’ire a la pena
ch’è giudicata in su le tue accuse?».

«Né morte ’l giunse ancor, né colpa ’l mena»,
rispuose ’l mio maestro, «a tormentarlo;
ma per dar lui esperïenza piena,

a me, che morto son, convien menarlo
per lo ’nferno qua giù di giro in giro;
e quest’ è ver così com’ io ti parlo».

Più fuor di cento che, quando l’udiro,
s’arrestaron nel fosso a riguardarmi
per maraviglia, oblïando il martiro.

«Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi,
tu che forse vedra’ il sole in breve,
s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,

sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch’altrimenti acquistar non saria leve».

Poi che l’un piè per girsene sospese,
Mäometto mi disse esta parola;
indi a partirsi in terra lo distese.

Un altro, che forata avea la gola
e tronco ’l naso infin sotto le ciglia,
e non avea mai ch’una orecchia sola,

ristato a riguardar per maraviglia
con li altri, innanzi a li altri aprì la canna,
ch’era di fuor d’ogne parte vermiglia,

e disse: «O tu cui colpa non condanna
e cu’ io vidi su in terra latina,
se troppa simiglianza non m’inganna,

rimembriti di Pier da Medicina,
se mai torni a veder lo dolce piano
che da Vercelli a Marcabò dichina.

E fa saper a’ due miglior da Fano,
a messer Guido e anco ad Angiolello,
che, se l’antiveder qui non è vano,

gittati saran fuor di lor vasello
e mazzerati presso a la Cattolica
per tradimento d’un tiranno fello.

Tra l’isola di Cipri e di Maiolica
non vide mai sì gran fallo Nettuno,
non da pirate, non da gente argolica.

Quel traditor che vede pur con l’uno,
e tien la terra che tale qui meco
vorrebbe di vedere esser digiuno,

farà venirli a parlamento seco;
poi farà sì, ch’al vento di Focara
non sarà lor mestier voto né preco».

E io a lui: «Dimostrami e dichiara,
se vuo’ ch’i’ porti sù di te novella,
chi è colui da la veduta amara».

Allor puose la mano a la mascella
d’un suo compagno e la bocca li aperse,
gridando: «Questi è desso, e non favella.

Questi, scacciato, il dubitar sommerse
in Cesare, affermando che ’l fornito
sempre con danno l’attender sofferse».

Oh quanto mi pareva sbigottito
con la lingua tagliata ne la strozza
Curïo, ch’a dir fu così ardito!

E un ch’avea l’una e l’altra man mozza,
levando i moncherin per l’aura fosca,
sì che ’l sangue facea la faccia sozza,

gridò: «Ricordera’ti anche del Mosca,
che disse, lasso!, “Capo ha cosa fatta”,
che fu mal seme per la gente tosca».

E io li aggiunsi: «E morte di tua schiatta»;
per ch’elli, accumulando duol con duolo,
sen gio come persona trista e matta.

Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,
e vidi cosa ch’io avrei paura,
sanza più prova, di contarla solo;

se non che coscïenza m’assicura,
la buona compagnia che l’uom francheggia
sotto l’asbergo del sentirsi pura.

Io vidi certo, e ancor par ch’io ’l veggia,
un busto sanza capo andar sì come
andavan li altri de la trista greggia;

e ’l capo tronco tenea per le chiome,
pesol con mano a guisa di lanterna:
e quel mirava noi e dicea: «Oh me!».

Di sé facea a sé stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due;
com’ esser può, quei sa che sì governa.

Quando diritto al piè del ponte fue,
levò ’l braccio alto con tutta la testa
per appressarne le parole sue,

che fuoro: «Or vedi la pena molesta,
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi s’alcuna è grande come questa.

E perché tu di me novella porti,
sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al re giovane i ma’ conforti.

Io feci il padre e ’l figlio in sé ribelli;
Achitofèl non fé più d’Absalone
e di Davìd coi malvagi punzelli.

Perch’ io parti’ così giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo principio ch’è in questo troncone.

Così s’osserva in me lo contrapasso».



Inferno · Canto XXIX


La molta gente e le diverse piaghe
avean le luci mie sì inebrïate,
che de lo stare a piangere eran vaghe.

Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate?
perché la vista tua pur si soffolge
là giù tra l’ombre triste smozzicate?

Tu non hai fatto sì a l’altre bolge;
pensa, se tu annoverar le credi,
che miglia ventidue la valle volge.

E già la luna è sotto i nostri piedi;
lo tempo è poco omai che n’è concesso,
e altro è da veder che tu non vedi».

«Se tu avessi», rispuos’ io appresso,
«atteso a la cagion per ch’io guardava,
forse m’avresti ancor lo star dimesso».

Parte sen giva, e io retro li andava,
lo duca, già faccendo la risposta,
e soggiugnendo: «Dentro a quella cava

dov’ io tenea or li occhi sì a posta,
credo ch’un spirto del mio sangue pianga
la colpa che là giù cotanto costa».

Allor disse ’l maestro: «Non si franga
lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ ello.
Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;

ch’io vidi lui a piè del ponticello
mostrarti e minacciar forte col dito,
e udi’ ’l nominar Geri del Bello.

Tu eri allor sì del tutto impedito
sovra colui che già tenne Altaforte,
che non guardasti in là, sì fu partito».

«O duca mio, la vïolenta morte
che non li è vendicata ancor», diss’ io,
«per alcun che de l’onta sia consorte,

fece lui disdegnoso; ond’ el sen gio
sanza parlarmi, sì com’ ïo estimo:
e in ciò m’ha el fatto a sé più pio».

Così parlammo infino al loco primo
che de lo scoglio l’altra valle mostra,
se più lume vi fosse, tutto ad imo.

Quando noi fummo sor l’ultima chiostra
di Malebolge, sì che i suoi conversi
potean parere a la veduta nostra,

lamenti saettaron me diversi,
che di pietà ferrati avean li strali;
ond’ io li orecchi con le man copersi.

Qual dolor fora, se de li spedali
di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre
e di Maremma e di Sardigna i mali

fossero in una fossa tutti ’nsembre,
tal era quivi, e tal puzzo n’usciva
qual suol venir de le marcite membre.

Noi discendemmo in su l’ultima riva
del lungo scoglio, pur da man sinistra;
e allor fu la mia vista più viva

giù ver’ lo fondo, la ’ve la ministra
de l’alto Sire infallibil giustizia
punisce i falsador che qui registra.

Non credo ch’a veder maggior tristizia
fosse in Egina il popol tutto infermo,
quando fu l’aere sì pien di malizia,

che li animali, infino al picciol vermo,
cascaron tutti, e poi le genti antiche,
secondo che i poeti hanno per fermo,

si ristorar di seme di formiche;
ch’era a veder per quella oscura valle
languir li spirti per diverse biche.

Qual sovra ’l ventre e qual sovra le spalle
l’un de l’altro giacea, e qual carpone
si trasmutava per lo tristo calle.

Passo passo andavam sanza sermone,
guardando e ascoltando li ammalati,
che non potean levar le lor persone.

Io vidi due sedere a sé poggiati,
com’ a scaldar si poggia tegghia a tegghia,
dal capo al piè di schianze macolati;

e non vidi già mai menare stregghia
a ragazzo aspettato dal segnorso,
né a colui che mal volontier vegghia,

come ciascun menava spesso il morso
de l’unghie sopra sé per la gran rabbia
del pizzicor, che non ha più soccorso;

e sì traevan giù l’unghie la scabbia,
come coltel di scardova le scaglie
o d’altro pesce che più larghe l’abbia.

«O tu che con le dita ti dismaglie»,
cominciò ’l duca mio a l’un di loro,
«e che fai d’esse talvolta tanaglie,

dinne s’alcun Latino è tra costoro
che son quinc’ entro, se l’unghia ti basti
etternalmente a cotesto lavoro».

«Latin siam noi, che tu vedi sì guasti
qui ambedue», rispuose l’un piangendo;
«ma tu chi se’ che di noi dimandasti?».

E ’l duca disse: «I’ son un che discendo
con questo vivo giù di balzo in balzo,
e di mostrar lo ’nferno a lui intendo».

Allor si ruppe lo comun rincalzo;
e tremando ciascuno a me si volse
con altri che l’udiron di rimbalzo.

Lo buon maestro a me tutto s’accolse,
dicendo: «Dì a lor ciò che tu vuoli»;
e io incominciai, poscia ch’ei volse:

«Se la vostra memoria non s’imboli
nel primo mondo da l’umane menti,
ma s’ella viva sotto molti soli,

ditemi chi voi siete e di che genti;
la vostra sconcia e fastidiosa pena
di palesarvi a me non vi spaventi».

«Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena»,
rispuose l’un, «mi fé mettere al foco;
ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena.

Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco:
“I’ mi saprei levar per l’aere a volo”;
e quei, ch’avea vaghezza e senno poco,

volle ch’i’ li mostrassi l’arte; e solo
perch’ io nol feci Dedalo, mi fece
ardere a tal che l’avea per figliuolo.

Ma ne l’ultima bolgia de le diece
me per l’alchìmia che nel mondo usai
dannò Minòs, a cui fallar non lece».

E io dissi al poeta: «Or fu già mai
gente sì vana come la sanese?
Certo non la francesca sì d’assai!».

Onde l’altro lebbroso, che m’intese,
rispuose al detto mio: «Tra’mene Stricca
che seppe far le temperate spese,

e Niccolò che la costuma ricca
del garofano prima discoverse
ne l’orto dove tal seme s’appicca;

e tra’ne la brigata in che disperse
Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda,
e l’Abbagliato suo senno proferse.

Ma perché sappi chi sì ti seconda
contra i Sanesi, aguzza ver’ me l’occhio,
sì che la faccia mia ben ti risponda:

sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio,
che falsai li metalli con l’alchìmia;
e te dee ricordar, se ben t’adocchio,

com’ io fui di natura buona scimia».



Inferno · Canto XXX


Nel tempo che Iunone era crucciata
per Semelè contra ’l sangue tebano,
come mostrò una e altra fïata,

Atamante divenne tanto insano,
che veggendo la moglie con due figli
andar carcata da ciascuna mano,

gridò: «Tendiam le reti, sì ch’io pigli
la leonessa e ’ leoncini al varco»;
e poi distese i dispietati artigli,

prendendo l’un ch’avea nome Learco,
e rotollo e percosselo ad un sasso;
e quella s’annegò con l’altro carco.

E quando la fortuna volse in basso
l’altezza de’ Troian che tutto ardiva,
sì che ’nsieme col regno il re fu casso,

Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva

del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane;
tanto il dolor le fé la mente torta.

Ma né di Tebe furie né troiane
si vider mäi in alcun tanto crude,
non punger bestie, nonché membra umane,

quant’ io vidi in due ombre smorte e nude,
che mordendo correvan di quel modo
che ’l porco quando del porcil si schiude.

L’una giunse a Capocchio, e in sul nodo
del collo l’assannò, sì che, tirando,
grattar li fece il ventre al fondo sodo.

E l’Aretin che rimase, tremando
mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui così conciando».

«Oh», diss’ io lui, «se l’altro non ti ficchi
li denti a dosso, non ti sia fatica
a dir chi è, pria che di qui si spicchi».

Ed elli a me: «Quell’ è l’anima antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre, fuor del dritto amore, amica.

Questa a peccar con esso così venne,
falsificando sé in altrui forma,
come l’altro che là sen va, sostenne,

per guadagnar la donna de la torma,
falsificare in sé Buoso Donati,
testando e dando al testamento norma».

E poi che i due rabbiosi fuor passati
sovra cu’ io avea l’occhio tenuto,
rivolsilo a guardar li altri mal nati.

Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,
pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia
tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto.

La grave idropesì, che sì dispaia
le membra con l’omor che mal converte,
che ’l viso non risponde a la ventraia,

faceva lui tener le labbra aperte
come l’etico fa, che per la sete
l’un verso ’l mento e l’altro in sù rinverte.

«O voi che sanz’ alcuna pena siete,
e non so io perché, nel mondo gramo»,
diss’ elli a noi, «guardate e attendete

a la miseria del maestro Adamo;
io ebbi, vivo, assai di quel ch’i’ volli,
e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo.

Li ruscelletti che d’i verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli,

sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
ché l’imagine lor vie più m’asciuga
che ’l male ond’ io nel volto mi discarno.

La rigida giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov’ io peccai
a metter più li miei sospiri in fuga.

Ivi è Romena, là dov’ io falsai
la lega suggellata del Batista;
per ch’io il corpo sù arso lasciai.

Ma s’io vedessi qui l’anima trista
di Guido o d’Alessandro o di lor frate,
per Fonte Branda non darei la vista.

Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate
ombre che vanno intorno dicon vero;
ma che mi val, c’ho le membra legate?

S’io fossi pur di tanto ancor leggero
ch’i’ potessi in cent’ anni andare un’oncia,
io sarei messo già per lo sentiero,

cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto ch’ella volge undici miglia,
e men d’un mezzo di traverso non ci ha.

Io son per lor tra sì fatta famiglia;
e’ m’indussero a batter li fiorini
ch’avevan tre carati di mondiglia».

E io a lui: «Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?».

«Qui li trovai—e poi volta non dierno—»,
rispuose, «quando piovvi in questo greppo,
e non credo che dieno in sempiterno.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’ è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».

E l’un di lor, che si recò a noia
forse d’esser nomato sì oscuro,
col pugno li percosse l’epa croia.

Quella sonò come fosse un tamburo;
e mastro Adamo li percosse il volto
col braccio suo, che non parve men duro,

dicendo a lui: «Ancor che mi sia tolto
lo muover per le membra che son gravi,
ho io il braccio a tal mestiere sciolto».

Ond’ ei rispuose: «Quando tu andavi
al fuoco, non l’avei tu così presto;
ma sì e più l’avei quando coniavi».

E l’idropico: «Tu di’ ver di questo:
ma tu non fosti sì ver testimonio
là ’ve del ver fosti a Troia richesto».

«S’io dissi falso, e tu falsasti il conio»,
disse Sinon; «e son qui per un fallo,
e tu per più ch’alcun altro demonio!».

«Ricorditi, spergiuro, del cavallo»,
rispuose quel ch’avëa infiata l’epa;
«e sieti reo che tutto il mondo sallo!».

«E te sia rea la sete onde ti crepa»,
disse ’l Greco, «la lingua, e l’acqua marcia
che ’l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa!».

Allora il monetier: «Così si squarcia
la bocca tua per tuo mal come suole;
ché, s’i’ ho sete e omor mi rinfarcia,

tu hai l’arsura e ’l capo che ti duole,
e per leccar lo specchio di Narcisso,
non vorresti a ’nvitar molte parole».

Ad ascoltarli er’ io del tutto fisso,
quando ’l maestro mi disse: «Or pur mira,
che per poco che teco non mi risso!».

Quand’ io ’l senti’ a me parlar con ira,
volsimi verso lui con tal vergogna,
ch’ancor per la memoria mi si gira.

Qual è colui che suo dannaggio sogna,
che sognando desidera sognare,
sì che quel ch’è, come non fosse, agogna,

tal mi fec’ io, non possendo parlare,
che disïava scusarmi, e scusava
me tuttavia, e nol mi credea fare.

«Maggior difetto men vergogna lava»,
disse ’l maestro, «che ’l tuo non è stato;
però d’ogne trestizia ti disgrava.

E fa ragion ch’io ti sia sempre allato,
se più avvien che fortuna t’accoglia
dove sien genti in simigliante piato:

ché voler ciò udire è bassa voglia».



Inferno · Canto XXXI


Una medesma lingua pria mi morse,
sì che mi tinse l’una e l’altra guancia,
e poi la medicina mi riporse;

così od’ io che solea far la lancia
d’Achille e del suo padre esser cagione
prima di trista e poi di buona mancia.

Noi demmo il dosso al misero vallone
su per la ripa che ’l cinge dintorno,
attraversando sanza alcun sermone.

Quiv’ era men che notte e men che giorno,
sì che ’l viso m’andava innanzi poco;
ma io senti’ sonare un alto corno,

tanto ch’avrebbe ogne tuon fatto fioco,
che, contra sé la sua via seguitando,
dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.

Dopo la dolorosa rotta, quando
Carlo Magno perdé la santa gesta,
non sonò sì terribilmente Orlando.

Poco portäi in là volta la testa,
che me parve veder molte alte torri;
ond’ io: «Maestro, dì, che terra è questa?».

Ed elli a me: «Però che tu trascorri
per le tenebre troppo da la lungi,
avvien che poi nel maginare abborri.

Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi,
quanto ’l senso s’inganna di lontano;
però alquanto più te stesso pungi».

Poi caramente mi prese per mano
e disse: «Pria che noi siam più avanti,
acciò che ’l fatto men ti paia strano,

sappi che non son torri, ma giganti,
e son nel pozzo intorno da la ripa
da l’umbilico in giuso tutti quanti».

Come quando la nebbia si dissipa,
lo sguardo a poco a poco raffigura
ciò che cela ’l vapor che l’aere stipa,

così forando l’aura grossa e scura,
più e più appressando ver’ la sponda,
fuggiemi errore e cresciemi paura;

però che, come su la cerchia tonda
Montereggion di torri si corona,
così la proda che ’l pozzo circonda

torreggiavan di mezza la persona
li orribili giganti, cui minaccia
Giove del cielo ancora quando tuona.

E io scorgeva già d’alcun la faccia,
le spalle e ’l petto e del ventre gran parte,
e per le coste giù ambo le braccia.

Natura certo, quando lasciò l’arte
di sì fatti animali, assai fé bene
per tòrre tali essecutori a Marte.

E s’ella d’elefanti e di balene
non si pente, chi guarda sottilmente,
più giusta e più discreta la ne tene;

ché dove l’argomento de la mente
s’aggiugne al mal volere e a la possa,
nessun riparo vi può far la gente.

La faccia sua mi parea lunga e grossa
come la pina di San Pietro a Roma,
e a sua proporzione eran l’altre ossa;

sì che la ripa, ch’era perizoma
dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto
di sovra, che di giugnere a la chioma

tre Frison s’averien dato mal vanto;
però ch’i’ ne vedea trenta gran palmi
dal loco in giù dov’ omo affibbia ’l manto.

«Raphèl maì amècche zabì almi»,
cominciò a gridar la fiera bocca,
cui non si convenia più dolci salmi.

E ’l duca mio ver’ lui: «Anima sciocca,
tienti col corno, e con quel ti disfoga
quand’ ira o altra passïon ti tocca!

Cércati al collo, e troverai la soga
che ’l tien legato, o anima confusa,
e vedi lui che ’l gran petto ti doga».

Poi disse a me: «Elli stessi s’accusa;
questi è Nembrotto per lo cui mal coto
pur un linguaggio nel mondo non s’usa.

Lasciànlo stare e non parliamo a vòto;
ché così è a lui ciascun linguaggio
come ’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto».

Facemmo adunque più lungo vïaggio,
vòlti a sinistra; e al trar d’un balestro
trovammo l’altro assai più fero e maggio.

A cigner lui qual che fosse ’l maestro,
non so io dir, ma el tenea soccinto
dinanzi l’altro e dietro il braccio destro

d’una catena che ’l tenea avvinto
dal collo in giù, sì che ’n su lo scoperto
si ravvolgëa infino al giro quinto.

«Questo superbo volle esser esperto
di sua potenza contra ’l sommo Giove»,
disse ’l mio duca, «ond’ elli ha cotal merto.

Fïalte ha nome, e fece le gran prove
quando i giganti fer paura a’ dèi;
le braccia ch’el menò, già mai non move».

E io a lui: «S’esser puote, io vorrei
che de lo smisurato Brïareo
esperïenza avesser li occhi mei».

Ond’ ei rispuose: «Tu vedrai Anteo
presso di qui che parla ed è disciolto,
che ne porrà nel fondo d’ogne reo.

Quel che tu vuo’ veder, più là è molto
ed è legato e fatto come questo,
salvo che più feroce par nel volto».

Non fu tremoto già tanto rubesto,
che scotesse una torre così forte,
come Fïalte a scuotersi fu presto.

Allor temett’ io più che mai la morte,
e non v’era mestier più che la dotta,
s’io non avessi viste le ritorte.

Noi procedemmo più avante allotta,
e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle,
sanza la testa, uscia fuor de la grotta.

«O tu che ne la fortunata valle
che fece Scipïon di gloria reda,
quand’ Anibàl co’ suoi diede le spalle,

recasti già mille leon per preda,
e che, se fossi stato a l’alta guerra
de’ tuoi fratelli, ancor par che si creda

ch’avrebber vinto i figli de la terra:
mettine giù, e non ten vegna schifo,
dove Cocito la freddura serra.

Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:
questi può dar di quel che qui si brama;
però ti china e non torcer lo grifo.

Ancor ti può nel mondo render fama,
ch’el vive, e lunga vita ancor aspetta
se ’nnanzi tempo grazia a sé nol chiama».

Così disse ’l maestro; e quelli in fretta
le man distese, e prese ’l duca mio,
ond’ Ercule sentì già grande stretta.

Virgilio, quando prender si sentio,
disse a me: «Fatti qua, sì ch’io ti prenda»;
poi fece sì ch’un fascio era elli e io.

Qual pare a riguardar la Carisenda
sotto ’l chinato, quando un nuvol vada
sovr’ essa sì, ched ella incontro penda:

tal parve Antëo a me che stava a bada
di vederlo chinare, e fu tal ora
ch’i’ avrei voluto ir per altra strada.

Ma lievemente al fondo che divora
Lucifero con Giuda, ci sposò;
né, sì chinato, lì fece dimora,

e come albero in nave si levò.



Inferno · Canto XXXII


S’ïo avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce,

io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch’ io non l’abbo,
non sanza tema a dicer mi conduco;

ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l’universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo.

Ma quelle donne aiutino il mio verso
ch’aiutaro Anfïone a chiuder Tebe,
sì che dal fatto il dir non sia diverso.

Oh sovra tutte mal creata plebe
che stai nel loco onde parlare è duro,
mei foste state qui pecore o zebe!

Come noi fummo giù nel pozzo scuro
sotto i piè del gigante assai più bassi,
e io mirava ancora a l’alto muro,

dicere udi’mi: «Guarda come passi:
va sì, che tu non calchi con le piante
le teste de’ fratei miseri lassi».

Per ch’io mi volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non d’acqua sembiante.

Non fece al corso suo sì grosso velo
di verno la Danoia in Osterlicchi,
né Tanaï là sotto ’l freddo cielo,

com’ era quivi; che se Tambernicchi
vi fosse sù caduto, o Pietrapana,
non avria pur da l’orlo fatto cricchi.

E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor de l’acqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana,

livide, insin là dove appar vergogna
eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna.

Ognuna in giù tenea volta la faccia;
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
tra lor testimonianza si procaccia.

Quand’ io m’ebbi dintorno alquanto visto,
volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti,
che ’l pel del capo avieno insieme misto.

«Ditemi, voi che sì strignete i petti»,
diss’ io, «chi siete?». E quei piegaro i colli;
e poi ch’ebber li visi a me eretti,

li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli,
gocciar su per le labbra, e ’l gelo strinse
le lagrime tra essi e riserrolli.

Con legno legno spranga mai non cinse
forte così; ond’ ei come due becchi
cozzaro insieme, tanta ira li vinse.

E un ch’avea perduti ambo li orecchi
per la freddura, pur col viso in giùe,
disse: «Perché cotanto in noi ti specchi?

Se vuoi saper chi son cotesti due,
la valle onde Bisenzo si dichina
del padre loro Alberto e di lor fue.

D’un corpo usciro; e tutta la Caina
potrai cercare, e non troverai ombra
degna più d’esser fitta in gelatina:

non quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra
con esso un colpo per la man d’Artù;
non Focaccia; non questi che m’ingombra

col capo sì, ch’i’ non veggio oltre più,
e fu nomato Sassol Mascheroni;
se tosco se’, ben sai omai chi fu.

E perché non mi metti in più sermoni,
sappi ch’i’ fu’ il Camiscion de’ Pazzi;
e aspetto Carlin che mi scagioni».


 


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