Divina Commedia di Dante: Inferno
by
Dante Alighieri

Part 1 out of 4








LA DIVINA COMMEDIA

DI DANTE ALIGHIERI




CANTICA I: INFERNO




Incipit Comoedia Dantis Alagherii,
Florentini natione, non moribus.


La Divina Commedia
di Dante Alighieri




INFERNO



Inferno: Canto I


Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
che' la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era e` cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

Tant'e` amara che poco e` piu` morte;
ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
diro` de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.

Io non so ben ridir com'i' v'intrai,
tant'era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.

Ma poi ch'i' fui al pie` d'un colle giunto,
la` dove terminava quella valle
che m'avea di paura il cor compunto,

guardai in alto, e vidi le sue spalle
vestite gia` de' raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.

Allor fu la paura un poco queta
che nel lago del cor m'era durata
la notte ch'i' passai con tanta pieta.

E come quei che con lena affannata
uscito fuor del pelago a la riva
si volge a l'acqua perigliosa e guata,

cosi` l'animo mio, ch'ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lascio` gia` mai persona viva.

Poi ch'ei posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
si` che 'l pie` fermo sempre era 'l piu` basso.

Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;

e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi 'mpediva tanto il mio cammino,
ch'i' fui per ritornar piu` volte volto.

Temp'era dal principio del mattino,
e 'l sol montava 'n su` con quelle stelle
ch'eran con lui quando l'amor divino

mosse di prima quelle cose belle;
si` ch'a bene sperar m'era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle

l'ora del tempo e la dolce stagione;
ma non si` che paura non mi desse
la vista che m'apparve d'un leone.

Questi parea che contra me venisse
con la test'alta e con rabbiosa fame,
si` che parea che l'aere ne tremesse.

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fe' gia` viver grame,

questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch'uscia di sua vista,
ch'io perdei la speranza de l'altezza.

E qual e` quei che volontieri acquista,
e giugne 'l tempo che perder lo face,
che 'n tutt'i suoi pensier piange e s'attrista;

tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
mi ripigneva la` dove 'l sol tace.

Mentre ch'i' rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.

Quando vidi costui nel gran diserto,
<>, gridai a lui,
<>.

Rispuosemi: < e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patria ambedui.

Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto
nel tempo de li dei falsi e bugiardi.

Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d'Anchise che venne di Troia,
poi che 'l superbo Ilion fu combusto.

Ma tu perche' ritorni a tanta noia?
perche' non sali il dilettoso monte
ch'e` principio e cagion di tutta gioia?>>.

< che spandi di parlar si` largo fiume?>>,
rispuos'io lui con vergognosa fronte.

< vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
che m'ha fatto cercar lo tuo volume.

Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore;
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore.

Vedi la bestia per cu' io mi volsi:
aiutami da lei, famoso saggio,
ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi>>.

<>,
rispuose poi che lagrimar mi vide,
<
che' questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;

e ha natura si` malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo 'l pasto ha piu` fame che pria.

Molti son li animali a cui s'ammoglia,
e piu` saranno ancora, infin che 'l veltro
verra`, che la fara` morir con doglia.

Questi non cibera` terra ne' peltro,
ma sapienza, amore e virtute,
e sua nazion sara` tra feltro e feltro.

Di quella umile Italia fia salute
per cui mori` la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.

Questi la caccera` per ogne villa,
fin che l'avra` rimessa ne lo 'nferno,
la` onde 'nvidia prima dipartilla.

Ond'io per lo tuo me' penso e discerno
che tu mi segui, e io saro` tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno,

ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch'a la seconda morte ciascun grida;

e vederai color che son contenti
nel foco, perche' speran di venire
quando che sia a le beate genti.

A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a cio` piu` di me degna:
con lei ti lascero` nel mio partire;

che' quello imperador che la` su` regna,
perch'i' fu' ribellante a la sua legge,
non vuol che 'n sua citta` per me si vegna.

In tutte parti impera e quivi regge;
quivi e` la sua citta` e l'alto seggio:
oh felice colui cu' ivi elegge!>>.

E io a lui: < per quello Dio che tu non conoscesti,
accio` ch'io fugga questo male e peggio,

che tu mi meni la` dov'or dicesti,
si` ch'io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti>>.

Allor si mosse, e io li tenni dietro.



Inferno: Canto II


Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno

m'apparecchiava a sostener la guerra
si` del cammino e si` de la pietate,
che ritrarra` la mente che non erra.

O muse, o alto ingegno, or m'aiutate;
o mente che scrivesti cio` ch'io vidi,
qui si parra` la tua nobilitate.

Io cominciai: < guarda la mia virtu` s'ell'e` possente,
prima ch'a l'alto passo tu mi fidi.

Tu dici che di Silvio il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo ando`, e fu sensibilmente.

Pero`, se l'avversario d'ogne male
cortese i fu, pensando l'alto effetto
ch'uscir dovea di lui e 'l chi e 'l quale,

non pare indegno ad omo d'intelletto;
ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero
ne l'empireo ciel per padre eletto:

la quale e 'l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u' siede il successor del maggior Piero.

Per quest'andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.

Andovvi poi lo Vas d'elezione,
per recarne conforto a quella fede
ch'e` principio a la via di salvazione.

Ma io perche' venirvi? o chi 'l concede?
Io non Enea, io non Paulo sono:
me degno a cio` ne' io ne' altri 'l crede.

Per che, se del venire io m'abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono>>.

E qual e` quei che disvuol cio` che volle
e per novi pensier cangia proposta,
si` che dal cominciar tutto si tolle,

tal mi fec'io 'n quella oscura costa,
perche', pensando, consumai la 'mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.

<>,
rispuose del magnanimo quell'ombra;
<
la qual molte fiate l'omo ingombra
si` che d'onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand'ombra.

Da questa tema accio` che tu ti solve,
dirotti perch'io venni e quel ch'io 'ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.

Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamo` beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.

Lucevan li occhi suoi piu` che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:

"O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durera` quanto 'l mondo lontana,

l'amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia e` impedito
si` nel cammin, che volt'e` per paura;

e temo che non sia gia` si` smarrito,
ch'io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito.

Or movi, e con la tua parola ornata
e con cio` c'ha mestieri al suo campare
l'aiuta, si` ch'i' ne sia consolata.

I' son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.

Quando saro` dinanzi al segnor mio,
di te mi lodero` sovente a lui".
Tacette allora, e poi comincia' io:

"O donna di virtu`, sola per cui
l'umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c'ha minor li cerchi sui,

tanto m'aggrada il tuo comandamento,
che l'ubidir, se gia` fosse, m'e` tardi;
piu` non t'e` uo' ch'aprirmi il tuo talento.

Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de l'ampio loco ove tornar tu ardi".

"Da che tu vuo' saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente", mi rispuose,
"perch'io non temo di venir qua entro.

Temer si dee di sole quelle cose
c'hanno potenza di fare altrui male;
de l'altre no, che' non son paurose.

I' son fatta da Dio, sua merce', tale,
che la vostra miseria non mi tange,
ne' fiamma d'esto incendio non m'assale.

Donna e` gentil nel ciel che si compiange
di questo 'mpedimento ov'io ti mando,
si` che duro giudicio la` su` frange.

Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse: - Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando -.

Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov'i' era,
che mi sedea con l'antica Rachele.

Disse: - Beatrice, loda di Dio vera,
che' non soccorri quei che t'amo` tanto,
ch'usci` per te de la volgare schiera?

non odi tu la pieta del suo pianto?
non vedi tu la morte che 'l combatte
su la fiumana ove 'l mar non ha vanto? -.

Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
com'io, dopo cotai parole fatte,

venni qua giu` del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
ch'onora te e quei ch'udito l'hanno".

Poscia che m'ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse;
per che mi fece del venir piu` presto;

e venni a te cosi` com'ella volse;
d'inanzi a quella fiera ti levai
che del bel monte il corto andar ti tolse.

Dunque: che e`? perche', perche' restai?
perche' tanta vilta` nel core allette?
perche' ardire e franchezza non hai,

poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e 'l mio parlar tanto ben ti promette?>>.

Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca
si drizzan tutti aperti in loro stelo,

tal mi fec'io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
ch'i' cominciai come persona franca:

< e te cortese ch'ubidisti tosto
a le vere parole che ti porse!

Tu m'hai con disiderio il cor disposto
si` al venir con le parole tue,
ch'i' son tornato nel primo proposto.

Or va, ch'un sol volere e` d'ambedue:
tu duca, tu segnore, e tu maestro>>.
Cosi` li dissi; e poi che mosso fue,

intrai per lo cammino alto e silvestro.



Inferno: Canto III


Per me si va ne la citta` dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.

Giustizia mosse il mio alto fattore:
fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e 'l primo amore.

Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate".

Queste parole di colore oscuro
vid'io scritte al sommo d'una porta;
per ch'io: <>.

Ed elli a me, come persona accorta:
< ogne vilta` convien che qui sia morta.

Noi siam venuti al loco ov'i' t'ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c'hanno perduto il ben de l'intelletto>>.

E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.

Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l'aere sanza stelle,
per ch'io al cominciar ne lagrimai.

Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d'ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle

facevano un tumulto, il qual s'aggira
sempre in quell'aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.

E io ch'avea d'error la testa cinta,
dissi: < e che gent'e` che par nel duol si` vinta?>>.

Ed elli a me: < tegnon l'anime triste di coloro
che visser sanza 'nfamia e sanza lodo.

Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
ne' fur fedeli a Dio, ma per se' fuoro.

Caccianli i ciel per non esser men belli,
ne' lo profondo inferno li riceve,
ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli>>.

E io: < a lor, che lamentar li fa si` forte?>>.
Rispuose: <
Questi non hanno speranza di morte
e la lor cieca vita e` tanto bassa,
che 'nvidiosi son d'ogne altra sorte.

Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa>>.

E io, che riguardai, vidi una 'nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d'ogne posa mi parea indegna;

e dietro le venia si` lunga tratta
di gente, ch'i' non averei creduto
che morte tanta n'avesse disfatta.

Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l'ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.

Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d'i cattivi,
a Dio spiacenti e a' nemici sui.

Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch'eran ivi.

Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a' lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.

E poi ch'a riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d'un gran fiume;
per ch'io dissi: <
ch'i' sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer si` pronte,
com'io discerno per lo fioco lume>>.

Ed elli a me: < quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d'Acheronte>>.

Allor con li occhi vergognosi e bassi,
temendo no 'l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi.

Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: <
Non isperate mai veder lo cielo:
i' vegno per menarvi a l'altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo.

E tu che se' costi`, anima viva,
partiti da cotesti che son morti>>.
Ma poi che vide ch'io non mi partiva,

disse: < verrai a piaggia, non qui, per passare:
piu` lieve legno convien che ti porti>>.

E 'l duca lui: < vuolsi cosi` cola` dove si puote
cio` che si vuole, e piu` non dimandare>>.

Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote.

Ma quell'anime, ch'eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che 'nteser le parole crude.

Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.

Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch'attende ciascun uom che Dio non teme.

Caron dimonio, con occhi di bragia,
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s'adagia.

Come d'autunno si levan le foglie
l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie,

similemente il mal seme d'Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.

Cosi` sen vanno su per l'onda bruna,
e avanti che sien di la` discese,
anche di qua nuova schiera s'auna.

<>, disse 'l maestro cortese,
< tutti convegnon qui d'ogne paese:

e pronti sono a trapassar lo rio,
che' la divina giustizia li sprona,
si` che la tema si volve in disio.

Quinci non passa mai anima buona;
e pero`, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che 'l suo dir suona>>.

Finito questo, la buia campagna
tremo` si` forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.

La terra lagrimosa diede vento,
che baleno` una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;

e caddi come l'uom cui sonno piglia.



Inferno: Canto IV


Ruppemi l'alto sonno ne la testa
un greve truono, si` ch'io mi riscossi
come persona ch'e` per forza desta;

e l'occhio riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai
per conoscer lo loco dov'io fossi.

Vero e` che 'n su la proda mi trovai
de la valle d'abisso dolorosa
che 'ntrono accoglie d'infiniti guai.

Oscura e profonda era e nebulosa
tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
io non vi discernea alcuna cosa.

<>,
comincio` il poeta tutto smorto.
<>.

E io, che del color mi fui accorto,
dissi: < che suoli al mio dubbiare esser conforto?>>.

Ed elli a me: < che son qua giu`, nel viso mi dipigne
quella pieta` che tu per tema senti.

Andiam, che' la via lunga ne sospigne>>.
Cosi` si mise e cosi` mi fe' intrare
nel primo cerchio che l'abisso cigne.

Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri,
che l'aura etterna facevan tremare;

cio` avvenia di duol sanza martiri
ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi,
d'infanti e di femmine e di viri.

Lo buon maestro a me: < che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo' che sappi, innanzi che piu` andi,

ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi,
non basta, perche' non ebber battesmo,
ch'e` porta de la fede che tu credi;

e s'e' furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo.

Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi,
che sanza speme vivemo in disio>>.

Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi,
pero` che gente di molto valore
conobbi che 'n quel limbo eran sospesi.

<>,
comincia' io per voler esser certo
di quella fede che vince ogne errore:

< o per altrui, che poi fosse beato?>>.
E quei che 'ntese il mio parlar coverto,

rispuose: < quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria coronato.

Trasseci l'ombra del primo parente,
d'Abel suo figlio e quella di Noe`,
di Moise` legista e ubidente;

Abraam patriarca e David re,
Israel con lo padre e co' suoi nati
e con Rachele, per cui tanto fe';

e altri molti, e feceli beati.
E vo' che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran salvati>>.

Non lasciavam l'andar perch'ei dicessi,
ma passavam la selva tuttavia,
la selva, dico, di spiriti spessi.

Non era lunga ancor la nostra via
di qua dal sonno, quand'io vidi un foco
ch'emisperio di tenebre vincia.

Di lungi n'eravamo ancora un poco,
ma non si` ch'io non discernessi in parte
ch'orrevol gente possedea quel loco.

< questi chi son c'hanno cotanta onranza,
che dal modo de li altri li diparte?>>.

E quelli a me: < che di lor suona su` ne la tua vita,
grazia acquista in ciel che si` li avanza>>.

Intanto voce fu per me udita:
< l'ombra sua torna, ch'era dipartita>>.

Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand'ombre a noi venire:
sembianz'avevan ne' trista ne' lieta.

Lo buon maestro comincio` a dire:
< che vien dinanzi ai tre si` come sire:

quelli e` Omero poeta sovrano;
l'altro e` Orazio satiro che vene;
Ovidio e` 'l terzo, e l'ultimo Lucano.

Pero` che ciascun meco si convene
nel nome che sono` la voce sola,
fannomi onore, e di cio` fanno bene>>.

Cosi` vid'i' adunar la bella scola
di quel segnor de l'altissimo canto
che sovra li altri com'aquila vola.

Da ch'ebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e 'l mio maestro sorrise di tanto;

e piu` d'onore ancora assai mi fenno,
ch'e' si` mi fecer de la loro schiera,
si` ch'io fui sesto tra cotanto senno.

Cosi` andammo infino a la lumera,
parlando cose che 'l tacere e` bello,
si` com'era 'l parlar cola` dov'era.

Venimmo al pie` d'un nobile castello,
sette volte cerchiato d'alte mura,
difeso intorno d'un bel fiumicello.

Questo passammo come terra dura;
per sette porte intrai con questi savi:
giugnemmo in prato di fresca verdura.

Genti v'eran con occhi tardi e gravi,
di grande autorita` ne' lor sembianti:
parlavan rado, con voci soavi.

Traemmoci cosi` da l'un de' canti,
in loco aperto, luminoso e alto,
si` che veder si potien tutti quanti.

Cola` diritto, sovra 'l verde smalto,
mi fuor mostrati li spiriti magni,
che del vedere in me stesso m'essalto.

I' vidi Eletra con molti compagni,
tra ' quai conobbi Ettor ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni.

Vidi Cammilla e la Pantasilea;
da l'altra parte, vidi 'l re Latino
che con Lavina sua figlia sedea.

Vidi quel Bruto che caccio` Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia;
e solo, in parte, vidi 'l Saladino.

Poi ch'innalzai un poco piu` le ciglia,
vidi 'l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia.

Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
quivi vid'io Socrate e Platone,
che 'nnanzi a li altri piu` presso li stanno;

Democrito, che 'l mondo a caso pone,
Diogenes, Anassagora e Tale,
Empedocles, Eraclito e Zenone;

e vidi il buono accoglitor del quale,
Diascoride dico; e vidi Orfeo,
Tulio e Lino e Seneca morale;

Euclide geometra e Tolomeo,
Ipocrate, Avicenna e Galieno,
Averois, che 'l gran comento feo.

Io non posso ritrar di tutti a pieno,
pero` che si` mi caccia il lungo tema,
che molte volte al fatto il dir vien meno.

La sesta compagnia in due si scema:
per altra via mi mena il savio duca,
fuor de la queta, ne l'aura che trema.

E vegno in parte ove non e` che luca.



Inferno: Canto V


Cosi` discesi del cerchio primaio
giu` nel secondo, che men loco cinghia,
e tanto piu` dolor, che punge a guaio.

Stavvi Minos orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l'intrata;
giudica e manda secondo ch'avvinghia.

Dico che quando l'anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata

vede qual loco d'inferno e` da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giu` sia messa.

Sempre dinanzi a lui ne stanno molte;
vanno a vicenda ciascuna al giudizio;
dicono e odono, e poi son giu` volte.

<>,
disse Minos a me quando mi vide,
lasciando l'atto di cotanto offizio,

< non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!>>.
E 'l duca mio a lui: <
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi cosi` cola` dove si puote
cio` che si vuole, e piu` non dimandare>>.

Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
la` dove molto pianto mi percuote.

Io venni in loco d'ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti e` combattuto.

La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.

Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtu` divina.

Intesi ch'a cosi` fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.

E come li stornei ne portan l'ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
cosi` quel fiato li spiriti mali

di qua, di la`, di giu`, di su` li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.

E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di se' lunga riga,
cosi` vid'io venir, traendo guai,

ombre portate da la detta briga;
per ch'i' dissi: < genti che l'aura nera si` gastiga?>>.

< tu vuo' saper>>, mi disse quelli allotta,
<
A vizio di lussuria fu si` rotta,
che libito fe' licito in sua legge,
per torre il biasmo in che era condotta.

Ell'e` Semiramis, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che 'l Soldan corregge.

L'altra e` colei che s'ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi e` Cleopatras lussuriosa.

Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi 'l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.

Vedi Paris, Tristano>>; e piu` di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch'amor di nostra vita dipartille.

Poscia ch'io ebbi il mio dottore udito
nomar le donne antiche e ' cavalieri,
pieta` mi giunse, e fui quasi smarrito.

I' cominciai: < parlerei a quei due che 'nsieme vanno,
e paion si` al vento esser leggeri>>.

Ed elli a me: < piu` presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno>>.

Si` tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: < venite a noi parlar, s'altri nol niega!>>.

Quali colombe dal disio chiamate
con l'ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l'aere dal voler portate;

cotali uscir de la schiera ov'e` Dido,
a noi venendo per l'aere maligno,
si` forte fu l'affettuoso grido.

< che visitando vai per l'aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,

se fosse amico il re de l'universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c'hai pieta` del nostro mal perverso.

Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che 'l vento, come fa, ci tace.

Siede la terra dove nata fui
su la marina dove 'l Po discende
per aver pace co' seguaci sui.

Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.

Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer si` forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.

Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense>>.
Queste parole da lor ci fuor porte.

Quand'io intesi quell'anime offense,
china' il viso e tanto il tenni basso,
fin che 'l poeta mi disse: <>.

Quando rispuosi, cominciai: < quanti dolci pensier, quanto disio
meno` costoro al doloroso passo!>>.

Poi mi rivolsi a loro e parla' io,
e cominciai: < a lagrimar mi fanno tristo e pio.

Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?>>.

E quella a me: < che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e cio` sa 'l tuo dottore.

Ma s'a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
diro` come colui che piange e dice.

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.

Per piu` fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi bascio` tutto tremante.
Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:
quel giorno piu` non vi leggemmo avante>>.

Mentre che l'uno spirto questo disse,
l'altro piangea; si` che di pietade
io venni men cosi` com'io morisse.

E caddi come corpo morto cade.



Inferno: Canto VI


Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pieta` d'i due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse,

novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch'io mi mova
e ch'io mi volga, e come che io guati.

Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualita` mai non l'e` nova.

Grandine grossa, acqua tinta e neve
per l'aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve.

Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi e` sommersa.

Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e 'l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra.

Urlar li fa la pioggia come cani;
de l'un de' lati fanno a l'altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani.

Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo.

E 'l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gitto` dentro a le bramose canne.

Qual e` quel cane ch'abbaiando agogna,
e si racqueta poi che 'l pasto morde,
che' solo a divorarlo intende e pugna,

cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che 'ntrona
l'anime si`, ch'esser vorrebber sorde.

Noi passavam su per l'ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanita` che par persona.

Elle giacean per terra tutte quante,
fuor d'una ch'a seder si levo`, ratto
ch'ella ci vide passarsi davante.

<>,
mi disse, < tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto>>.

E io a lui: < forse ti tira fuor de la mia mente,
si` che non par ch'i' ti vedessi mai.

Ma dimmi chi tu se' che 'n si` dolente
loco se' messo e hai si` fatta pena,
che, s'altra e` maggio, nulla e` si` spiacente>>.

Ed elli a me: < d'invidia si` che gia` trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.

Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.

E io anima trista non son sola,
che' tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa>>. E piu` non fe' parola.

Io li rispuosi: < mi pesa si`, ch'a lagrimar mi 'nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno

li cittadin de la citta` partita;
s'alcun v'e` giusto; e dimmi la cagione
per che l'ha tanta discordia assalita>>.

E quelli a me: < verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccera` l'altra con molta offensione.

Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l'altra sormonti
con la forza di tal che teste' piaggia.

Alte terra` lungo tempo le fronti,
tenendo l'altra sotto gravi pesi,
come che di cio` pianga o che n'aonti.

Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c'hanno i cuori accesi>>.

Qui puose fine al lagrimabil suono.
E io a lui: < e che di piu` parlar mi facci dono.

Farinata e 'l Tegghiaio, che fuor si` degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e 'l Mosca
e li altri ch'a ben far puoser li 'ngegni,

dimmi ove sono e fa ch'io li conosca;
che' gran disio mi stringe di savere
se 'l ciel li addolcia, o lo 'nferno li attosca>>.

E quelli: < diverse colpe giu` li grava al fondo:
se tanto scendi, la` i potrai vedere.

Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
priegoti ch'a la mente altrui mi rechi:
piu` non ti dico e piu` non ti rispondo>>.

Li diritti occhi torse allora in biechi;
guardommi un poco, e poi chino` la testa:
cadde con essa a par de li altri ciechi.

E 'l duca disse a me: < di qua dal suon de l'angelica tromba,
quando verra` la nimica podesta:

ciascun rivedera` la trista tomba,
ripigliera` sua carne e sua figura,
udira` quel ch'in etterno rimbomba>>.

Si` trapassammo per sozza mistura
de l'ombre e de la pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la vita futura;

per ch'io dissi: < crescerann'ei dopo la gran sentenza,
o fier minori, o saran si` cocenti?>>.

Ed elli a me: < che vuol, quanto la cosa e` piu` perfetta,
piu` senta il bene, e cosi` la doglienza.

Tutto che questa gente maladetta
in vera perfezion gia` mai non vada,
di la` piu` che di qua essere aspetta>>.

Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando piu` assai ch'i' non ridico;
venimmo al punto dove si digrada:

quivi trovammo Pluto, il gran nemico.



Inferno: Canto VII


<>,
comincio` Pluto con la voce chioccia;
e quel savio gentil, che tutto seppe,

disse per confortarmi: < la tua paura; che', poder ch'elli abbia,
non ci torra` lo scender questa roccia>>.

Poi si rivolse a quella 'nfiata labbia,
e disse: < consuma dentro te con la tua rabbia.

Non e` sanza cagion l'andare al cupo:
vuolsi ne l'alto, la` dove Michele
fe' la vendetta del superbo strupo>>.

Quali dal vento le gonfiate vele
caggiono avvolte, poi che l'alber fiacca,
tal cadde a terra la fiera crudele.

Cosi` scendemmo ne la quarta lacca
pigliando piu` de la dolente ripa
che 'l mal de l'universo tutto insacca.

Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
nove travaglie e pene quant'io viddi?
e perche' nostra colpa si` ne scipa?

Come fa l'onda la` sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s'intoppa,
cosi` convien che qui la gente riddi.

Qui vid'i' gente piu` ch'altrove troppa,
e d'una parte e d'altra, con grand'urli,
voltando pesi per forza di poppa.

Percoteansi 'ncontro; e poscia pur li`
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: <> e <>.

Cosi` tornavan per lo cerchio tetro
da ogne mano a l'opposito punto,
gridandosi anche loro ontoso metro;

poi si volgea ciascun, quand'era giunto,
per lo suo mezzo cerchio a l'altra giostra.
E io, ch'avea lo cor quasi compunto,

dissi: < che gente e` questa, e se tutti fuor cherci
questi chercuti a la sinistra nostra>>.

Ed elli a me: < si` de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci.

Assai la voce lor chiaro l'abbaia
quando vegnono a' due punti del cerchio
dove colpa contraria li dispaia.

Questi fuor cherci, che non han coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo soperchio>>.

E io: < dovre' io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti mali>>.

Ed elli a me: < la sconoscente vita che i fe' sozzi
ad ogne conoscenza or li fa bruni.

In etterno verranno a li due cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.

Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro.

Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
d'i ben che son commessi a la fortuna,
per che l'umana gente si rabbuffa;

che' tutto l'oro ch'e` sotto la luna
e che gia` fu, di quest'anime stanche
non poterebbe farne posare una>>.

<>, diss'io, < questa fortuna di che tu mi tocche,
che e`, che i ben del mondo ha si` tra branche?>>.

E quelli a me: < quanta ignoranza e` quella che v'offende!
Or vo' che tu mia sentenza ne 'mbocche.

Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e die` lor chi conduce
si` ch'ogne parte ad ogne parte splende,

distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordino` general ministra e duce

che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d'uno in altro sangue,
oltre la difension d'i senni umani;

per ch'una gente impera e l'altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che e` occulto come in erba l'angue.

Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dei.

Le sue permutazion non hanno triegue;
necessita` la fa esser veloce;
si` spesso vien chi vicenda consegue.

Quest'e` colei ch'e` tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce;

ma ella s'e` beata e cio` non ode:
con l'altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode.

Or discendiamo omai a maggior pieta;
gia` ogne stella cade che saliva
quand'io mi mossi, e 'l troppo star si vieta>>.

Noi ricidemmo il cerchio a l'altra riva
sovr'una fonte che bolle e riversa
per un fossato che da lei deriva.

L'acqua era buia assai piu` che persa;
e noi, in compagnia de l'onde bige,
intrammo giu` per una via diversa.

In la palude va c'ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand'e` disceso
al pie` de le maligne piagge grige.

E io, che di mirare stava inteso,
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, con sembiante offeso.

Queste si percotean non pur con mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co' denti a brano a brano.

Lo buon maestro disse: < l'anime di color cui vinse l'ira;
e anche vo' che tu per certo credi

che sotto l'acqua e` gente che sospira,
e fanno pullular quest'acqua al summo,
come l'occhio ti dice, u' che s'aggira.

Fitti nel limo, dicon: "Tristi fummo
ne l'aere dolce che dal sol s'allegra,
portando dentro accidioso fummo:

or ci attristiam ne la belletta negra".
Quest'inno si gorgoglian ne la strozza,
che' dir nol posson con parola integra>>.

Cosi` girammo de la lorda pozza
grand'arco tra la ripa secca e 'l mezzo,
con li occhi volti a chi del fango ingozza.

Venimmo al pie` d'una torre al da sezzo.



Inferno: Canto VIII


Io dico, seguitando, ch'assai prima
che noi fossimo al pie` de l'alta torre,
li occhi nostri n'andar suso a la cima

per due fiammette che i vedemmo porre
e un'altra da lungi render cenno
tanto ch'a pena il potea l'occhio torre.

E io mi volsi al mar di tutto 'l senno;
dissi: < quell'altro foco? e chi son quei che 'l fenno?>>.

Ed elli a me: < gia` scorgere puoi quello che s'aspetta,
se 'l fummo del pantan nol ti nasconde>>.

Corda non pinse mai da se' saetta
che si` corresse via per l'aere snella,
com'io vidi una nave piccioletta

venir per l'acqua verso noi in quella,
sotto 'l governo d'un sol galeoto,
che gridava: <>.

<>,
disse lo mio segnore <
piu` non ci avrai che sol passando il loto>>.

Qual e` colui che grande inganno ascolta
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
fecesi Flegias ne l'ira accolta.

Lo duca mio discese ne la barca,
e poi mi fece intrare appresso lui;
e sol quand'io fui dentro parve carca.

Tosto che 'l duca e io nel legno fui,
segando se ne va l'antica prora
de l'acqua piu` che non suol con altrui.

Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: <>.

E io a lui: < ma tu chi se', che si` se' fatto brutto?>>.
Rispuose: <>.

E io a lui: < spirito maladetto, ti rimani;
ch'i' ti conosco, ancor sie lordo tutto>>.

Allor distese al legno ambo le mani;
per che 'l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: <>.

Lo collo poi con le braccia mi cinse;
basciommi 'l volto, e disse: < benedetta colei che 'n te s'incinse!

Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bonta` non e` che sua memoria fregi:
cosi` s'e` l'ombra sua qui furiosa.

Quanti si tegnon or la` su` gran regi
che qui staranno come porci in brago,
di se' lasciando orribili dispregi!>>.

E io: < di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo del lago>>.

Ed elli a me: < ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disio convien che tu goda>>.

Dopo cio` poco vid'io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.

Tutti gridavano: <
>;
e 'l fiorentino spirito bizzarro
in se' medesmo si volvea co' denti.

Quivi il lasciammo, che piu` non ne narro;
ma ne l'orecchie mi percosse un duolo,
per ch'io avante l'occhio intento sbarro.

Lo buon maestro disse: < s'appressa la citta` c'ha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande stuolo>>.

E io: < la` entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite

fossero>>. Ed ei mi disse: < ch'entro l'affoca le dimostra rosse,
come tu vedi in questo basso inferno>>.

Noi pur giugnemmo dentro a l'alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse.

Non sanza prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
<>, grido`: <>.

Io vidi piu` di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: <
va per lo regno de la morta gente?>>.
E 'l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.

Allor chiusero un poco il gran disdegno,
e disser: < che si` ardito intro` per questo regno.

Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; che' tu qui rimarrai
che li ha' iscorta si` buia contrada>>.

Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
che' non credetti ritornarci mai.

< volte m'hai sicurta` renduta e tratto
d'alto periglio che 'ncontra mi stette,

non mi lasciar>>, diss'io, < e se 'l passar piu` oltre ci e` negato,
ritroviam l'orme nostre insieme ratto>>.

E quel segnor che li` m'avea menato,
mi disse: < non ci puo` torre alcun: da tal n'e` dato.

Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
ch'i' non ti lascero` nel mondo basso>>.

Cosi` sen va, e quivi m'abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che si` e no nel capo mi tenciona.

Udir non potti quello ch'a lor porse;
ma ei non stette la` con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse.

Chiuser le porte que' nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase,
e rivolsesi a me con passi rari.

Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d'ogne baldanza, e dicea ne' sospiri:
<>.

E a me disse: < non sbigottir, ch'io vincero` la prova,
qual ch'a la difension dentro s'aggiri.

Questa lor tracotanza non e` nova;
che' gia` l'usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.

Sovr'essa vedestu` la scritta morta:
e gia` di qua da lei discende l'erta,
passando per li cerchi sanza scorta,

tal che per lui ne fia la terra aperta>>.



Inferno: Canto IX


Quel color che vilta` di fuor mi pinse
veggendo il duca mio tornare in volta,
piu` tosto dentro il suo novo ristrinse.

Attento si fermo` com'uom ch'ascolta;
che' l'occhio nol potea menare a lunga
per l'aere nero e per la nebbia folta.

<>,
comincio` el, < Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!>>.

I' vidi ben si` com'ei ricoperse
lo cominciar con l'altro che poi venne,
che fur parole a le prime diverse;

ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch'io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne.

< discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca?>>.

Questa question fec'io; e quei < incontra>>, mi rispuose, < faccia il cammino alcun per qual io vado.

Ver e` ch'altra fiata qua giu` fui,
congiurato da quella Eriton cruda
che richiamava l'ombre a' corpi sui.

Di poco era di me la carne nuda,
ch'ella mi fece intrar dentr'a quel muro,
per trarne un spirto del cerchio di Giuda.

Quell'e` 'l piu` basso loco e 'l piu` oscuro,
e 'l piu` lontan dal ciel che tutto gira:
ben so 'l cammin; pero` ti fa sicuro.

Questa palude che 'l gran puzzo spira
cigne dintorno la citta` dolente,
u' non potemo intrare omai sanz'ira>>.

E altro disse, ma non l'ho a mente;
pero` che l'occhio m'avea tutto tratto
ver' l'alta torre a la cima rovente,

dove in un punto furon dritte ratto
tre furie infernal di sangue tinte,
che membra feminine avieno e atto,

e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.

E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l'etterno pianto,
<>, mi disse, <
Quest'e` Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro e` Aletto;
Tesifon e` nel mezzo>>; e tacque a tanto.

Con l'unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme, e gridavan si` alto,
ch'i' mi strinsi al poeta per sospetto.

<>,
dicevan tutte riguardando in giuso;
<>.

< che' se 'l Gorgon si mostra e tu 'l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso>>.

Cosi` disse 'l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.

O voi ch'avete li 'ntelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani.

E gia` venia su per le torbide onde
un fracasso d'un suon, pien di spavento,
per cui tremavano amendue le sponde,

non altrimenti fatto che d'un vento
impetuoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz'alcun rattento

li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.

Gli occhi mi sciolse e disse: < del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo e` piu` acerbo>>.

Come le rane innanzi a la nimica
biscia per l'acqua si dileguan tutte,
fin ch'a la terra ciascuna s'abbica,

vid'io piu` di mille anime distrutte
fuggir cosi` dinanzi ad un ch'al passo
passava Stige con le piante asciutte.

Dal volto rimovea quell'aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell'angoscia parea lasso.

Ben m'accorsi ch'elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fe' segno
ch'i' stessi queto ed inchinassi ad esso.

Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta, e con una verghetta
l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno.

<>,
comincio` elli in su l'orribil soglia,
<
Perche' recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che piu` volte v'ha cresciuta doglia?

Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e 'l gozzo>>.

Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fe' motto a noi, ma fe' sembiante
d'omo cui altra cura stringa e morda

che quella di colui che li e` davante;
e noi movemmo i piedi inver' la terra,
sicuri appresso le parole sante.

Dentro li 'ntrammo sanz'alcuna guerra;
e io, ch'avea di riguardar disio
la condizion che tal fortezza serra,

com'io fui dentro, l'occhio intorno invio;
e veggio ad ogne man grande campagna
piena di duolo e di tormento rio.

Si` come ad Arli, ove Rodano stagna,
si` com'a Pola, presso del Carnaro
ch'Italia chiude e suoi termini bagna,

fanno i sepulcri tutt'il loco varo,
cosi` facevan quivi d'ogne parte,
salvo che 'l modo v'era piu` amaro;

che' tra gli avelli fiamme erano sparte,
per le quali eran si` del tutto accesi,
che ferro piu` non chiede verun'arte.

Tutti li lor coperchi eran sospesi,
e fuor n'uscivan si` duri lamenti,
che ben parean di miseri e d'offesi.

E io: < che, seppellite dentro da quell'arche,
si fan sentir coi sospiri dolenti?>>.

Ed elli a me: < con lor seguaci, d'ogne setta, e molto
piu` che non credi son le tombe carche.

Simile qui con simile e` sepolto,
e i monimenti son piu` e men caldi>>.
E poi ch'a la man destra si fu volto,

passammo tra i martiri e li alti spaldi.



Inferno: Canto X


Ora sen va per un secreto calle,
tra 'l muro de la terra e li martiri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle.

< mi volvi>>, cominciai, < parlami, e sodisfammi a' miei disiri.

La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? gia` son levati
tutt'i coperchi, e nessun guardia face>>.

E quelli a me: < quando di Iosafat qui torneranno
coi corpi che la` su` hanno lasciati.

Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l'anima col corpo morta fanno.

Pero` a la dimanda che mi faci
quinc'entro satisfatto sara` tosto,
e al disio ancor che tu mi taci>>.

E io: < a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m'hai non pur mo a cio` disposto>>.

< vivo ten vai cosi` parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.

La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio
a la qual forse fui troppo molesto>>.

Subitamente questo suono uscio
d'una de l'arche; pero` m'accostai,
temendo, un poco piu` al duca mio.

Ed el mi disse: < Vedi la` Farinata che s'e` dritto:
da la cintola in su` tutto 'l vedrai>>.

Io avea gia` il mio viso nel suo fitto;
ed el s'ergea col petto e con la fronte
com'avesse l'inferno a gran dispitto.

E l'animose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: <>.

Com'io al pie` de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimando`: <>.

Io ch'era d'ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel'apersi;
ond'ei levo` le ciglia un poco in suso;

poi disse: < a me e a miei primi e a mia parte,
si` che per due fiate li dispersi>>.

<>,
rispuos'io lui, < ma i vostri non appreser ben quell'arte>>.

Allor surse a la vista scoperchiata
un'ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s'era in ginocchie levata.

Dintorno mi guardo`, come talento
avesse di veder s'altri era meco;
e poi che 'l sospecciar fu tutto spento,

piangendo disse: < carcere vai per altezza d'ingegno,
mio figlio ov'e`? e perche' non e` teco?>>.

E io a lui: < colui ch'attende la`, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno>>.

Le sue parole e 'l modo de la pena
m'avean di costui gia` letto il nome;
pero` fu la risposta cosi` piena.

Di subito drizzato grido`: < dicesti "elli ebbe"? non viv'elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?>>.

Quando s'accorse d'alcuna dimora
ch'io facea dinanzi a la risposta,
supin ricadde e piu` non parve fora.

Ma quell'altro magnanimo, a cui posta
restato m'era, non muto` aspetto,
ne' mosse collo, ne' piego` sua costa:

e se' continuando al primo detto,
<>, disse, < cio` mi tormenta piu` che questo letto.

Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell'arte pesa.

E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perche' quel popolo e` si` empio
incontr'a' miei in ciascuna sua legge?>>.

Ond'io a lui: < che fece l'Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio>>.

Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso,
<
>, disse, < sanza cagion con li altri sarei mosso.

Ma fu' io solo, la` dove sofferto
fu per ciascun di torre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto>>.

<>,
prega' io lui, < che qui ha 'nviluppata mia sentenza.

El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che 'l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo>>.

< le cose>>, disse, < cotanto ancor ne splende il sommo duce.

Quando s'appressano o son, tutto e` vano
nostro intelletto; e s'altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano.

Pero` comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta>>.

Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: < che 'l suo nato e` co'vivi ancor congiunto;

e s'i' fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che 'l fei perche' pensava
gia` ne l'error che m'avete soluto>>.

E gia` 'l maestro mio mi richiamava;
per ch'i' pregai lo spirto piu` avaccio
che mi dicesse chi con lu' istava.

Dissemi: < qua dentro e` 'l secondo Federico,
e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio>>.

Indi s'ascose; e io inver' l'antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico.

Elli si mosse; e poi, cosi` andando,
mi disse: <>.
E io li sodisfeci al suo dimando.

< hai contra te>>, mi comando` quel saggio.
<>, e drizzo` 'l dito:

< di quella il cui bell'occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il viaggio>>.

Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver' lo mezzo
per un sentier ch'a una valle fiede,

che 'nfin la` su` facea spiacer suo lezzo.



Inferno: Canto XI


In su l'estremita` d'un'alta ripa
che facevan gran pietre rotte in cerchio
venimmo sopra piu` crudele stipa;

e quivi, per l'orribile soperchio
del puzzo che 'l profondo abisso gitta,
ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio

d'un grand'avello, ov'io vidi una scritta
che dicea: "Anastasio papa guardo,
lo qual trasse Fotin de la via dritta".

< si` che s'ausi un poco in prima il senso
al tristo fiato; e poi no i fia riguardo>>.

Cosi` 'l maestro; e io <>,
dissi lui, < perduto>>. Ed elli: <>.

<>,
comincio` poi a dir, < di grado in grado, come que' che lassi.

Tutti son pien di spirti maladetti;
ma perche' poi ti basti pur la vista,
intendi come e perche' son costretti.

D'ogne malizia, ch'odio in cielo acquista,
ingiuria e` 'l fine, ed ogne fin cotale
o con forza o con frode altrui contrista.

Ma perche' frode e` de l'uom proprio male,
piu` spiace a Dio; e pero` stan di sotto
li frodolenti, e piu` dolor li assale.

Di violenti il primo cerchio e` tutto;
ma perche' si fa forza a tre persone,
in tre gironi e` distinto e costrutto.

A Dio, a se', al prossimo si pone
far forza, dico in loro e in lor cose,
come udirai con aperta ragione.

Morte per forza e ferute dogliose
nel prossimo si danno, e nel suo avere
ruine, incendi e tollette dannose;

onde omicide e ciascun che mal fiere,
guastatori e predon, tutti tormenta
lo giron primo per diverse schiere.

Puote omo avere in se' man violenta
e ne' suoi beni; e pero` nel secondo
giron convien che sanza pro si penta

qualunque priva se' del vostro mondo,
biscazza e fonde la sua facultade,
e piange la` dov'esser de' giocondo.

Puossi far forza nella deitade,
col cor negando e bestemmiando quella,
e spregiando natura e sua bontade;

e pero` lo minor giron suggella
del segno suo e Soddoma e Caorsa
e chi, spregiando Dio col cor, favella.

La frode, ond'ogne coscienza e` morsa,
puo` l'omo usare in colui che 'n lui fida
e in quel che fidanza non imborsa.

Questo modo di retro par ch'incida
pur lo vinco d'amor che fa natura;
onde nel cerchio secondo s'annida

ipocresia, lusinghe e chi affattura,
falsita`, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile lordura.

Per l'altro modo quell'amor s'oblia
che fa natura, e quel ch'e` poi aggiunto,
di che la fede spezial si cria;

onde nel cerchio minore, ov'e` 'l punto
de l'universo in su che Dite siede,
qualunque trade in etterno e` consunto>>.

E io: < la tua ragione, e assai ben distingue
questo baratro e 'l popol ch'e' possiede.

Ma dimmi: quei de la palude pingue,
che mena il vento, e che batte la pioggia,
e che s'incontran con si` aspre lingue,

perche' non dentro da la citta` roggia
sono ei puniti, se Dio li ha in ira?
e se non li ha, perche' sono a tal foggia?>>.

Ed elli a me <>,
disse < o ver la mente dove altrove mira?

Non ti rimembra di quelle parole
con le quai la tua Etica pertratta
le tre disposizion che 'l ciel non vole,



 


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