Divina Commedia di Dante: Paradiso
by
Dante Alighieri

Part 2 out of 4



fermossi, come a candellier candelo.

E io senti’ dentro a quella lumera
che pria m’avea parlato, sorridendo
incominciar, faccendosi più mera:

«Così com’ io del suo raggio resplendo,
sì, riguardando ne la luce etterna,
li tuoi pensieri onde cagioni apprendo.

Tu dubbi, e hai voler che si ricerna
in sì aperta e ’n sì distesa lingua
lo dicer mio, ch’al tuo sentir si sterna,

ove dinanzi dissi: “U’ ben s’impingua”,
e là u’ dissi: “Non nacque il secondo”;
e qui è uopo che ben si distingua.

La provedenza, che governa il mondo
con quel consiglio nel quale ogne aspetto
creato è vinto pria che vada al fondo,

però che andasse ver’ lo suo diletto
la sposa di colui ch’ad alte grida
disposò lei col sangue benedetto,

in sé sicura e anche a lui più fida,
due principi ordinò in suo favore,
che quinci e quindi le fosser per guida.

L’un fu tutto serafico in ardore;
l’altro per sapïenza in terra fue
di cherubica luce uno splendore.

De l’un dirò, però che d’amendue
si dice l’un pregiando, qual ch’om prende,
perch’ ad un fine fur l’opere sue.

Intra Tupino e l’acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa d’alto monte pende,

onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole; e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.

Di questa costa, là dov’ ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange.

Però chi d’esso loco fa parole,
non dica Ascesi, ché direbbe corto,
ma Orïente, se proprio dir vuole.

Non era ancor molto lontan da l’orto,
ch’el cominciò a far sentir la terra
de la sua gran virtute alcun conforto;

ché per tal donna, giovinetto, in guerra
del padre corse, a cui, come a la morte,
la porta del piacer nessun diserra;

e dinanzi a la sua spirital corte
et coram patre le si fece unito;
poscia di dì in dì l’amò più forte.

Questa, privata del primo marito,
millecent’ anni e più dispetta e scura
fino a costui si stette sanza invito;

né valse udir che la trovò sicura
con Amiclate, al suon de la sua voce,
colui ch’a tutto ’l mondo fé paura;

né valse esser costante né feroce,
sì che, dove Maria rimase giuso,
ella con Cristo pianse in su la croce.

Ma perch’ io non proceda troppo chiuso,
Francesco e Povertà per questi amanti
prendi oramai nel mio parlar diffuso.

La lor concordia e i lor lieti sembianti,
amore e maraviglia e dolce sguardo
facieno esser cagion di pensier santi;

tanto che ’l venerabile Bernardo
si scalzò prima, e dietro a tanta pace
corse e, correndo, li parve esser tardo.

Oh ignota ricchezza! oh ben ferace!
Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro
dietro a lo sposo, sì la sposa piace.

Indi sen va quel padre e quel maestro
con la sua donna e con quella famiglia
che già legava l’umile capestro.

Né li gravò viltà di cuor le ciglia
per esser fi’ di Pietro Bernardone,
né per parer dispetto a maraviglia;

ma regalmente sua dura intenzione
ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe
primo sigillo a sua religïone.

Poi che la gente poverella crebbe
dietro a costui, la cui mirabil vita
meglio in gloria del ciel si canterebbe,

di seconda corona redimita
fu per Onorio da l’Etterno Spiro
la santa voglia d’esto archimandrita.

E poi che, per la sete del martiro,
ne la presenza del Soldan superba
predicò Cristo e li altri che ’l seguiro,

e per trovare a conversione acerba
troppo la gente e per non stare indarno,
redissi al frutto de l’italica erba,

nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese l’ultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno.

Quando a colui ch’a tanto ben sortillo
piacque di trarlo suso a la mercede
ch’el meritò nel suo farsi pusillo,

a’ frati suoi, sì com’ a giuste rede,
raccomandò la donna sua più cara,
e comandò che l’amassero a fede;

e del suo grembo l’anima preclara
mover si volle, tornando al suo regno,
e al suo corpo non volle altra bara.

Pensa oramai qual fu colui che degno
collega fu a mantener la barca
di Pietro in alto mar per dritto segno;

e questo fu il nostro patrïarca;
per che qual segue lui, com’ el comanda,
discerner puoi che buone merce carca.

Ma ’l suo pecuglio di nova vivanda
è fatto ghiotto, sì ch’esser non puote
che per diversi salti non si spanda;

e quanto le sue pecore remote
e vagabunde più da esso vanno,
più tornano a l’ovil di latte vòte.

Ben son di quelle che temono ’l danno
e stringonsi al pastor; ma son sì poche,
che le cappe fornisce poco panno.

Or, se le mie parole non son fioche,
se la tua audïenza è stata attenta,
se ciò ch’è detto a la mente revoche,

in parte fia la tua voglia contenta,
perché vedrai la pianta onde si scheggia,
e vedra’ il corrègger che argomenta

“U’ ben s’impingua, se non si vaneggia”».



Paradiso · Canto XII


Sì tosto come l’ultima parola
la benedetta fiamma per dir tolse,
a rotar cominciò la santa mola;

e nel suo giro tutta non si volse
prima ch’un’altra di cerchio la chiuse,
e moto a moto e canto a canto colse;

canto che tanto vince nostre muse,
nostre serene in quelle dolci tube,
quanto primo splendor quel ch’e’ refuse.

Come si volgon per tenera nube
due archi paralelli e concolori,
quando Iunone a sua ancella iube,

nascendo di quel d’entro quel di fori,
a guisa del parlar di quella vaga
ch’amor consunse come sol vapori,

e fanno qui la gente esser presaga,
per lo patto che Dio con Noè puose,
del mondo che già mai più non s’allaga:

così di quelle sempiterne rose
volgiensi circa noi le due ghirlande,
e sì l’estrema a l’intima rispuose.

Poi che ’l tripudio e l’altra festa grande,
sì del cantare e sì del fiammeggiarsi
luce con luce gaudïose e blande,

insieme a punto e a voler quetarsi,
pur come li occhi ch’al piacer che i move
conviene insieme chiudere e levarsi;

del cor de l’una de le luci nove
si mosse voce, che l’ago a la stella
parer mi fece in volgermi al suo dove;

e cominciò: «L’amor che mi fa bella
mi tragge a ragionar de l’altro duca
per cui del mio sì ben ci si favella.

Degno è che, dov’ è l’un, l’altro s’induca:
sì che, com’ elli ad una militaro,
così la gloria loro insieme luca.

L’essercito di Cristo, che sì caro
costò a rïarmar, dietro a la ’nsegna
si movea tardo, sospeccioso e raro,

quando lo ’mperador che sempre regna
provide a la milizia, ch’era in forse,
per sola grazia, non per esser degna;

e, come è detto, a sua sposa soccorse
con due campioni, al cui fare, al cui dire
lo popol disvïato si raccorse.

In quella parte ove surge ad aprire
Zefiro dolce le novelle fronde
di che si vede Europa rivestire,

non molto lungi al percuoter de l’onde
dietro a le quali, per la lunga foga,
lo sol talvolta ad ogne uom si nasconde,

siede la fortunata Calaroga
sotto la protezion del grande scudo
in che soggiace il leone e soggioga:

dentro vi nacque l’amoroso drudo
de la fede cristiana, il santo atleta
benigno a’ suoi e a’ nemici crudo;

e come fu creata, fu repleta
sì la sua mente di viva vertute
che, ne la madre, lei fece profeta.

Poi che le sponsalizie fuor compiute
al sacro fonte intra lui e la Fede,
u’ si dotar di mutüa salute,

la donna che per lui l’assenso diede,
vide nel sonno il mirabile frutto
ch’uscir dovea di lui e de le rede;

e perché fosse qual era in costrutto,
quinci si mosse spirito a nomarlo
del possessivo di cui era tutto.

Domenico fu detto; e io ne parlo
sì come de l’agricola che Cristo
elesse a l’orto suo per aiutarlo.

Ben parve messo e famigliar di Cristo:
che ’l primo amor che ’n lui fu manifesto,
fu al primo consiglio che diè Cristo.

Spesse fïate fu tacito e desto
trovato in terra da la sua nutrice,
come dicesse: ‘Io son venuto a questo’.

Oh padre suo veramente Felice!
oh madre sua veramente Giovanna,
se, interpretata, val come si dice!

Non per lo mondo, per cui mo s’affanna
di retro ad Ostïense e a Taddeo,
ma per amor de la verace manna

in picciol tempo gran dottor si feo;
tal che si mise a circüir la vigna
che tosto imbianca, se ’l vignaio è reo.

E a la sedia che fu già benigna
più a’ poveri giusti, non per lei,
ma per colui che siede, che traligna,

non dispensare o due o tre per sei,
non la fortuna di prima vacante,
non decimas, quae sunt pauperum Dei,

addimandò, ma contro al mondo errante
licenza di combatter per lo seme
del qual ti fascian ventiquattro piante.

Poi, con dottrina e con volere insieme,
con l’officio appostolico si mosse
quasi torrente ch’alta vena preme;

e ne li sterpi eretici percosse
l’impeto suo, più vivamente quivi
dove le resistenze eran più grosse.

Di lui si fecer poi diversi rivi
onde l’orto catolico si riga,
sì che i suoi arbuscelli stan più vivi.

Se tal fu l’una rota de la biga
in che la Santa Chiesa si difese
e vinse in campo la sua civil briga,

ben ti dovrebbe assai esser palese
l’eccellenza de l’altra, di cui Tomma
dinanzi al mio venir fu sì cortese.

Ma l’orbita che fé la parte somma
di sua circunferenza, è derelitta,
sì ch’è la muffa dov’ era la gromma.

La sua famiglia, che si mosse dritta
coi piedi a le sue orme, è tanto volta,
che quel dinanzi a quel di retro gitta;

e tosto si vedrà de la ricolta
de la mala coltura, quando il loglio
si lagnerà che l’arca li sia tolta.

Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio
nostro volume, ancor troveria carta
u’ leggerebbe “I’ mi son quel ch’i’ soglio”;

ma non fia da Casal né d’Acquasparta,
là onde vegnon tali a la scrittura,
ch’uno la fugge e altro la coarta.

Io son la vita di Bonaventura
da Bagnoregio, che ne’ grandi offici
sempre pospuosi la sinistra cura.

Illuminato e Augustin son quici,
che fuor de’ primi scalzi poverelli
che nel capestro a Dio si fero amici.

Ugo da San Vittore è qui con elli,
e Pietro Mangiadore e Pietro Spano,
lo qual giù luce in dodici libelli;

Natàn profeta e ’l metropolitano
Crisostomo e Anselmo e quel Donato
ch’a la prim’ arte degnò porre mano.

Rabano è qui, e lucemi dallato
il calavrese abate Giovacchino
di spirito profetico dotato.

Ad inveggiar cotanto paladino
mi mosse l’infiammata cortesia
di fra Tommaso e ’l discreto latino;

e mosse meco questa compagnia».



Paradiso · Canto XIII


Imagini, chi bene intender cupe
quel ch’i’ or vidi—e ritegna l’image,
mentre ch’io dico, come ferma rupe—,

quindici stelle che ’n diverse plage
lo ciel avvivan di tanto sereno
che soperchia de l’aere ogne compage;

imagini quel carro a cu’ il seno
basta del nostro cielo e notte e giorno,
sì ch’al volger del temo non vien meno;

imagini la bocca di quel corno
che si comincia in punta de lo stelo
a cui la prima rota va dintorno,

aver fatto di sé due segni in cielo,
qual fece la figliuola di Minoi
allora che sentì di morte il gelo;

e l’un ne l’altro aver li raggi suoi,
e amendue girarsi per maniera
che l’uno andasse al primo e l’altro al poi;

e avrà quasi l’ombra de la vera
costellazione e de la doppia danza
che circulava il punto dov’ io era:

poi ch’è tanto di là da nostra usanza,
quanto di là dal mover de la Chiana
si move il ciel che tutti li altri avanza.

Lì si cantò non Bacco, non Peana,
ma tre persone in divina natura,
e in una persona essa e l’umana.

Compié ’l cantare e ’l volger sua misura;
e attesersi a noi quei santi lumi,
felicitando sé di cura in cura.

Ruppe il silenzio ne’ concordi numi
poscia la luce in che mirabil vita
del poverel di Dio narrata fumi,

e disse: «Quando l’una paglia è trita,
quando la sua semenza è già riposta,
a batter l’altra dolce amor m’invita.

Tu credi che nel petto onde la costa
si trasse per formar la bella guancia
il cui palato a tutto ’l mondo costa,

e in quel che, forato da la lancia,
e prima e poscia tanto sodisfece,
che d’ogne colpa vince la bilancia,

quantunque a la natura umana lece
aver di lume, tutto fosse infuso
da quel valor che l’uno e l’altro fece;

e però miri a ciò ch’io dissi suso,
quando narrai che non ebbe ’l secondo
lo ben che ne la quinta luce è chiuso.

Or apri li occhi a quel ch’io ti rispondo,
e vedräi il tuo credere e ’l mio dire
nel vero farsi come centro in tondo.

Ciò che non more e ciò che può morire
non è se non splendor di quella idea
che partorisce, amando, il nostro Sire;

ché quella viva luce che sì mea
dal suo lucente, che non si disuna
da lui né da l’amor ch’a lor s’intrea,

per sua bontate il suo raggiare aduna,
quasi specchiato, in nove sussistenze,
etternalmente rimanendosi una.

Quindi discende a l’ultime potenze
giù d’atto in atto, tanto divenendo,
che più non fa che brevi contingenze;

e queste contingenze essere intendo
le cose generate, che produce
con seme e sanza seme il ciel movendo.

La cera di costoro e chi la duce
non sta d’un modo; e però sotto ’l segno
idëale poi più e men traluce.

Ond’ elli avvien ch’un medesimo legno,
secondo specie, meglio e peggio frutta;
e voi nascete con diverso ingegno.

Se fosse a punto la cera dedutta
e fosse il cielo in sua virtù supprema,
la luce del suggel parrebbe tutta;

ma la natura la dà sempre scema,
similemente operando a l’artista
ch’a l’abito de l’arte ha man che trema.

Però se ’l caldo amor la chiara vista
de la prima virtù dispone e segna,
tutta la perfezion quivi s’acquista.

Così fu fatta già la terra degna
di tutta l’animal perfezïone;
così fu fatta la Vergine pregna;

sì ch’io commendo tua oppinïone,
che l’umana natura mai non fue
né fia qual fu in quelle due persone.

Or s’i’ non procedesse avanti piùe,
‘Dunque, come costui fu sanza pare?’
comincerebber le parole tue.

Ma perché paia ben ciò che non pare,
pensa chi era, e la cagion che ’l mosse,
quando fu detto “Chiedi”, a dimandare.

Non ho parlato sì, che tu non posse
ben veder ch’el fu re, che chiese senno
acciò che re sufficïente fosse;

non per sapere il numero in che enno
li motor di qua sù, o se necesse
con contingente mai necesse fenno;

non si est dare primum motum esse,
o se del mezzo cerchio far si puote
trïangol sì ch’un retto non avesse.

Onde, se ciò ch’io dissi e questo note,
regal prudenza è quel vedere impari
in che lo stral di mia intenzion percuote;

e se al “surse” drizzi li occhi chiari,
vedrai aver solamente respetto
ai regi, che son molti, e ’ buon son rari.

Con questa distinzion prendi ’l mio detto;
e così puote star con quel che credi
del primo padre e del nostro Diletto.

E questo ti sia sempre piombo a’ piedi,
per farti mover lento com’ uom lasso
e al sì e al no che tu non vedi:

ché quelli è tra li stolti bene a basso,
che sanza distinzione afferma e nega
ne l’un così come ne l’altro passo;

perch’ elli ’ncontra che più volte piega
l’oppinïon corrente in falsa parte,
e poi l’affetto l’intelletto lega.

Vie più che ’ndarno da riva si parte,
perché non torna tal qual e’ si move,
chi pesca per lo vero e non ha l’arte.

E di ciò sono al mondo aperte prove
Parmenide, Melisso e Brisso e molti,
li quali andaro e non sapëan dove;

sì fé Sabellio e Arrio e quelli stolti
che furon come spade a le Scritture
in render torti li diritti volti.

Non sien le genti, ancor, troppo sicure
a giudicar, sì come quei che stima
le biade in campo pria che sien mature;

ch’i’ ho veduto tutto ’l verno prima
lo prun mostrarsi rigido e feroce,
poscia portar la rosa in su la cima;

e legno vidi già dritto e veloce
correr lo mar per tutto suo cammino,
perire al fine a l’intrar de la foce.

Non creda donna Berta e ser Martino,
per vedere un furare, altro offerere,
vederli dentro al consiglio divino;

ché quel può surgere, e quel può cadere».



Paradiso · Canto XIV


Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro
movesi l’acqua in un ritondo vaso,
secondo ch’è percosso fuori o dentro:

ne la mia mente fé sùbito caso
questo ch’io dico, sì come si tacque
la glorïosa vita di Tommaso,

per la similitudine che nacque
del suo parlare e di quel di Beatrice,
a cui sì cominciar, dopo lui, piacque:

«A costui fa mestieri, e nol vi dice
né con la voce né pensando ancora,
d’un altro vero andare a la radice.

Diteli se la luce onde s’infiora
vostra sustanza, rimarrà con voi
etternalmente sì com’ ell’ è ora;

e se rimane, dite come, poi
che sarete visibili rifatti,
esser porà ch’al veder non vi nòi».

Come, da più letizia pinti e tratti,
a la fïata quei che vanno a rota
levan la voce e rallegrano li atti,

così, a l’orazion pronta e divota,
li santi cerchi mostrar nova gioia
nel torneare e ne la mira nota.

Qual si lamenta perché qui si moia
per viver colà sù, non vide quive
lo refrigerio de l’etterna ploia.

Quell’ uno e due e tre che sempre vive
e regna sempre in tre e ’n due e ’n uno,
non circunscritto, e tutto circunscrive,

tre volte era cantato da ciascuno
di quelli spirti con tal melodia,
ch’ad ogne merto saria giusto muno.

E io udi’ ne la luce più dia
del minor cerchio una voce modesta,
forse qual fu da l’angelo a Maria,

risponder: «Quanto fia lunga la festa
di paradiso, tanto il nostro amore
si raggerà dintorno cotal vesta.

La sua chiarezza séguita l’ardore;
l’ardor la visïone, e quella è tanta,
quant’ ha di grazia sovra suo valore.

Come la carne glorïosa e santa
fia rivestita, la nostra persona
più grata fia per esser tutta quanta;

per che s’accrescerà ciò che ne dona
di gratüito lume il sommo bene,
lume ch’a lui veder ne condiziona;

onde la visïon crescer convene,
crescer l’ardor che di quella s’accende,
crescer lo raggio che da esso vene.

Ma sì come carbon che fiamma rende,
e per vivo candor quella soverchia,
sì che la sua parvenza si difende;

così questo folgór che già ne cerchia
fia vinto in apparenza da la carne
che tutto dì la terra ricoperchia;

né potrà tanta luce affaticarne:
ché li organi del corpo saran forti
a tutto ciò che potrà dilettarne».

Tanto mi parver sùbiti e accorti
e l’uno e l’altro coro a dicer «Amme!»,
che ben mostrar disio d’i corpi morti:

forse non pur per lor, ma per le mamme,
per li padri e per li altri che fuor cari
anzi che fosser sempiterne fiamme.

Ed ecco intorno, di chiarezza pari,
nascere un lustro sopra quel che v’era,
per guisa d’orizzonte che rischiari.

E sì come al salir di prima sera
comincian per lo ciel nove parvenze,
sì che la vista pare e non par vera,

parvemi lì novelle sussistenze
cominciare a vedere, e fare un giro
di fuor da l’altre due circunferenze.

Oh vero sfavillar del Santo Spiro!
come si fece sùbito e candente
a li occhi miei che, vinti, nol soffriro!

Ma Bëatrice sì bella e ridente
mi si mostrò, che tra quelle vedute
si vuol lasciar che non seguir la mente.

Quindi ripreser li occhi miei virtute
a rilevarsi; e vidimi translato
sol con mia donna in più alta salute.

Ben m’accors’ io ch’io era più levato,
per l’affocato riso de la stella,
che mi parea più roggio che l’usato.

Con tutto ’l core e con quella favella
ch’è una in tutti, a Dio feci olocausto,
qual conveniesi a la grazia novella.

E non er’ anco del mio petto essausto
l’ardor del sacrificio, ch’io conobbi
esso litare stato accetto e fausto;

ché con tanto lucore e tanto robbi
m’apparvero splendor dentro a due raggi,
ch’io dissi: «O Elïòs che sì li addobbi!».

Come distinta da minori e maggi
lumi biancheggia tra ’ poli del mondo
Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi;

sì costellati facean nel profondo
Marte quei raggi il venerabil segno
che fan giunture di quadranti in tondo.

Qui vince la memoria mia lo ’ngegno;
ché quella croce lampeggiava Cristo,
sì ch’io non so trovare essempro degno;

ma chi prende sua croce e segue Cristo,
ancor mi scuserà di quel ch’io lasso,
vedendo in quell’ albor balenar Cristo.

Di corno in corno e tra la cima e ’l basso
si movien lumi, scintillando forte
nel congiugnersi insieme e nel trapasso:

così si veggion qui diritte e torte,
veloci e tarde, rinovando vista,
le minuzie d’i corpi, lunghe e corte,

moversi per lo raggio onde si lista
talvolta l’ombra che, per sua difesa,
la gente con ingegno e arte acquista.

E come giga e arpa, in tempra tesa
di molte corde, fa dolce tintinno
a tal da cui la nota non è intesa,

così da’ lumi che lì m’apparinno
s’accogliea per la croce una melode
che mi rapiva, sanza intender l’inno.

Ben m’accors’ io ch’elli era d’alte lode,
però ch’a me venìa «Resurgi» e «Vinci»
come a colui che non intende e ode.

Ïo m’innamorava tanto quinci,
che ’nfino a lì non fu alcuna cosa
che mi legasse con sì dolci vinci.

Forse la mia parola par troppo osa,
posponendo il piacer de li occhi belli,
ne’ quai mirando mio disio ha posa;

ma chi s’avvede che i vivi suggelli
d’ogne bellezza più fanno più suso,
e ch’io non m’era lì rivolto a quelli,

escusar puommi di quel ch’io m’accuso
per escusarmi, e vedermi dir vero:
ché ’l piacer santo non è qui dischiuso,

perché si fa, montando, più sincero.



Paradiso · Canto XV


Benigna volontade in che si liqua
sempre l’amor che drittamente spira,
come cupidità fa ne la iniqua,

silenzio puose a quella dolce lira,
e fece quïetar le sante corde
che la destra del cielo allenta e tira.

Come saranno a’ giusti preghi sorde
quelle sustanze che, per darmi voglia
ch’io le pregassi, a tacer fur concorde?

Bene è che sanza termine si doglia
chi, per amor di cosa che non duri
etternalmente, quello amor si spoglia.

Quale per li seren tranquilli e puri
discorre ad ora ad or sùbito foco,
movendo li occhi che stavan sicuri,

e pare stella che tramuti loco,
se non che da la parte ond’ e’ s’accende
nulla sen perde, ed esso dura poco:

tale dal corno che ’n destro si stende
a piè di quella croce corse un astro
de la costellazion che lì resplende;

né si partì la gemma dal suo nastro,
ma per la lista radïal trascorse,
che parve foco dietro ad alabastro.

Sì pïa l’ombra d’Anchise si porse,
se fede merta nostra maggior musa,
quando in Eliso del figlio s’accorse.

«O sanguis meus, o superinfusa
gratïa Deï, sicut tibi cui
bis unquam celi ianüa reclusa?».

Così quel lume: ond’ io m’attesi a lui;
poscia rivolsi a la mia donna il viso,
e quinci e quindi stupefatto fui;

ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso
tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo
de la mia gloria e del mio paradiso.

Indi, a udire e a veder giocondo,
giunse lo spirto al suo principio cose,
ch’io non lo ’ntesi, sì parlò profondo;

né per elezïon mi si nascose,
ma per necessità, ché ’l suo concetto
al segno d’i mortal si soprapuose.

E quando l’arco de l’ardente affetto
fu sì sfogato, che ’l parlar discese
inver’ lo segno del nostro intelletto,

la prima cosa che per me s’intese,
«Benedetto sia tu», fu, «trino e uno,
che nel mio seme se’ tanto cortese!».

E seguì: «Grato e lontano digiuno,
tratto leggendo del magno volume
du’ non si muta mai bianco né bruno,

solvuto hai, figlio, dentro a questo lume
in ch’io ti parlo, mercè di colei
ch’a l’alto volo ti vestì le piume.

Tu credi che a me tuo pensier mei
da quel ch’è primo, così come raia
da l’un, se si conosce, il cinque e ’l sei;

e però ch’io mi sia e perch’ io paia
più gaudïoso a te, non mi domandi,
che alcun altro in questa turba gaia.

Tu credi ’l vero; ché i minori e ’ grandi
di questa vita miran ne lo speglio
in che, prima che pensi, il pensier pandi;

ma perché ’l sacro amore in che io veglio
con perpetüa vista e che m’asseta
di dolce disïar, s’adempia meglio,

la voce tua sicura, balda e lieta
suoni la volontà, suoni ’l disio,
a che la mia risposta è già decreta!».

Io mi volsi a Beatrice, e quella udio
pria ch’io parlassi, e arrisemi un cenno
che fece crescer l’ali al voler mio.

Poi cominciai così: «L’affetto e ’l senno,
come la prima equalità v’apparse,
d’un peso per ciascun di voi si fenno,

però che ’l sol che v’allumò e arse,
col caldo e con la luce è sì iguali,
che tutte simiglianze sono scarse.

Ma voglia e argomento ne’ mortali,
per la cagion ch’a voi è manifesta,
diversamente son pennuti in ali;

ond’ io, che son mortal, mi sento in questa
disagguaglianza, e però non ringrazio
se non col core a la paterna festa.

Ben supplico io a te, vivo topazio
che questa gioia prezïosa ingemmi,
perché mi facci del tuo nome sazio».

«O fronda mia in che io compiacemmi
pur aspettando, io fui la tua radice»:
cotal principio, rispondendo, femmi.

Poscia mi disse: «Quel da cui si dice
tua cognazione e che cent’ anni e piùe
girato ha ’l monte in la prima cornice,

mio figlio fu e tuo bisavol fue:
ben si convien che la lunga fatica
tu li raccorci con l’opere tue.

Fiorenza dentro da la cerchia antica,
ond’ ella toglie ancora e terza e nona,
si stava in pace, sobria e pudica.

Non avea catenella, non corona,
non gonne contigiate, non cintura
che fosse a veder più che la persona.

Non faceva, nascendo, ancor paura
la figlia al padre, che ’l tempo e la dote
non fuggien quinci e quindi la misura.

Non avea case di famiglia vòte;
non v’era giunto ancor Sardanapalo
a mostrar ciò che ’n camera si puote.

Non era vinto ancora Montemalo
dal vostro Uccellatoio, che, com’ è vinto
nel montar sù, così sarà nel calo.

Bellincion Berti vid’ io andar cinto
di cuoio e d’osso, e venir da lo specchio
la donna sua sanza ’l viso dipinto;

e vidi quel d’i Nerli e quel del Vecchio
esser contenti a la pelle scoperta,
e le sue donne al fuso e al pennecchio.

Oh fortunate! ciascuna era certa
de la sua sepultura, e ancor nulla
era per Francia nel letto diserta.

L’una vegghiava a studio de la culla,
e, consolando, usava l’idïoma
che prima i padri e le madri trastulla;

l’altra, traendo a la rocca la chioma,
favoleggiava con la sua famiglia
d’i Troiani, di Fiesole e di Roma.

Saria tenuta allor tal maraviglia
una Cianghella, un Lapo Salterello,
qual or saria Cincinnato e Corniglia.

A così riposato, a così bello
viver di cittadini, a così fida
cittadinanza, a così dolce ostello,

Maria mi diè, chiamata in alte grida;
e ne l’antico vostro Batisteo
insieme fui cristiano e Cacciaguida.

Moronto fu mio frate ed Eliseo;
mia donna venne a me di val di Pado,
e quindi il sopranome tuo si feo.

Poi seguitai lo ’mperador Currado;
ed el mi cinse de la sua milizia,
tanto per bene ovrar li venni in grado.

Dietro li andai incontro a la nequizia
di quella legge il cui popolo usurpa,
per colpa d’i pastor, vostra giustizia.

Quivi fu’ io da quella gente turpa
disviluppato dal mondo fallace,
lo cui amor molt’ anime deturpa;

e venni dal martiro a questa pace».



Paradiso · Canto XVI


O poca nostra nobiltà di sangue,
se glorïar di te la gente fai
qua giù dove l’affetto nostro langue,

mirabil cosa non mi sarà mai:
ché là dove appetito non si torce,
dico nel cielo, io me ne gloriai.

Ben se’ tu manto che tosto raccorce:
sì che, se non s’appon di dì in die,
lo tempo va dintorno con le force.

Dal ‘voi’ che prima a Roma s’offerie,
in che la sua famiglia men persevra,
ricominciaron le parole mie;

onde Beatrice, ch’era un poco scevra,
ridendo, parve quella che tossio
al primo fallo scritto di Ginevra.

Io cominciai: «Voi siete il padre mio;
voi mi date a parlar tutta baldezza;
voi mi levate sì, ch’i’ son più ch’io.

Per tanti rivi s’empie d’allegrezza
la mente mia, che di sé fa letizia
perché può sostener che non si spezza.

Ditemi dunque, cara mia primizia,
quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni
che si segnaro in vostra püerizia;

ditemi de l’ovil di San Giovanni
quanto era allora, e chi eran le genti
tra esso degne di più alti scanni».

Come s’avviva a lo spirar d’i venti
carbone in fiamma, così vid’ io quella
luce risplendere a’ miei blandimenti;

e come a li occhi miei si fé più bella,
così con voce più dolce e soave,
ma non con questa moderna favella,

dissemi: «Da quel dì che fu detto ‘Ave’
al parto in che mia madre, ch’è or santa,
s’allevïò di me ond’ era grave,

al suo Leon cinquecento cinquanta
e trenta fiate venne questo foco
a rinfiammarsi sotto la sua pianta.

Li antichi miei e io nacqui nel loco
dove si truova pria l’ultimo sesto
da quei che corre il vostro annüal gioco.

Basti d’i miei maggiori udirne questo:
chi ei si fosser e onde venner quivi,
più è tacer che ragionare onesto.

Tutti color ch’a quel tempo eran ivi
da poter arme tra Marte e ’l Batista,
eran il quinto di quei ch’or son vivi.

Ma la cittadinanza, ch’è or mista
di Campi, di Certaldo e di Fegghine,
pura vediesi ne l’ultimo artista.

Oh quanto fora meglio esser vicine
quelle genti ch’io dico, e al Galluzzo
e a Trespiano aver vostro confine,

che averle dentro e sostener lo puzzo
del villan d’Aguglion, di quel da Signa,
che già per barattare ha l’occhio aguzzo!

Se la gente ch’al mondo più traligna
non fosse stata a Cesare noverca,
ma come madre a suo figlio benigna,

tal fatto è fiorentino e cambia e merca,
che si sarebbe vòlto a Simifonti,
là dove andava l’avolo a la cerca;

sariesi Montemurlo ancor de’ Conti;
sarieno i Cerchi nel piovier d’Acone,
e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.

Sempre la confusion de le persone
principio fu del mal de la cittade,
come del vostro il cibo che s’appone;

e cieco toro più avaccio cade
che cieco agnello; e molte volte taglia
più e meglio una che le cinque spade.

Se tu riguardi Luni e Orbisaglia
come sono ite, e come se ne vanno
di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,

udir come le schiatte si disfanno
non ti parrà nova cosa né forte,
poscia che le cittadi termine hanno.

Le vostre cose tutte hanno lor morte,
sì come voi; ma celasi in alcuna
che dura molto, e le vite son corte.

E come ’l volger del ciel de la luna
cuopre e discuopre i liti sanza posa,
così fa di Fiorenza la Fortuna:

per che non dee parer mirabil cosa
ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini
onde è la fama nel tempo nascosa.

Io vidi li Ughi e vidi i Catellini,
Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi,
già nel calare, illustri cittadini;

e vidi così grandi come antichi,
con quel de la Sannella, quel de l’Arca,
e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi.

Sovra la porta ch’al presente è carca
di nova fellonia di tanto peso
che tosto fia iattura de la barca,

erano i Ravignani, ond’ è disceso
il conte Guido e qualunque del nome
de l’alto Bellincione ha poscia preso.

Quel de la Pressa sapeva già come
regger si vuole, e avea Galigaio
dorata in casa sua già l’elsa e ’l pome.

Grand’ era già la colonna del Vaio,
Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci
e Galli e quei ch’arrossan per lo staio.

Lo ceppo di che nacquero i Calfucci
era già grande, e già eran tratti
a le curule Sizii e Arrigucci.

Oh quali io vidi quei che son disfatti
per lor superbia! e le palle de l’oro
fiorian Fiorenza in tutt’ i suoi gran fatti.

Così facieno i padri di coloro
che, sempre che la vostra chiesa vaca,
si fanno grassi stando a consistoro.

L’oltracotata schiatta che s’indraca
dietro a chi fugge, e a chi mostra ’l dente
o ver la borsa, com’ agnel si placa,

già venìa sù, ma di picciola gente;
sì che non piacque ad Ubertin Donato
che poï il suocero il fé lor parente.

Già era ’l Caponsacco nel mercato
disceso giù da Fiesole, e già era
buon cittadino Giuda e Infangato.

Io dirò cosa incredibile e vera:
nel picciol cerchio s’entrava per porta
che si nomava da quei de la Pera.

Ciascun che de la bella insegna porta
del gran barone il cui nome e ’l cui pregio
la festa di Tommaso riconforta,

da esso ebbe milizia e privilegio;
avvegna che con popol si rauni
oggi colui che la fascia col fregio.

Già eran Gualterotti e Importuni;
e ancor saria Borgo più quïeto,
se di novi vicin fosser digiuni.

La casa di che nacque il vostro fleto,
per lo giusto disdegno che v’ha morti
e puose fine al vostro viver lieto,

era onorata, essa e suoi consorti:
o Buondelmonte, quanto mal fuggisti
le nozze süe per li altrui conforti!

Molti sarebber lieti, che son tristi,
se Dio t’avesse conceduto ad Ema
la prima volta ch’a città venisti.

Ma conveniesi a quella pietra scema
che guarda ’l ponte, che Fiorenza fesse
vittima ne la sua pace postrema.

Con queste genti, e con altre con esse,
vid’ io Fiorenza in sì fatto riposo,
che non avea cagione onde piangesse.

Con queste genti vid’io glorïoso
e giusto il popol suo, tanto che ’l giglio
non era ad asta mai posto a ritroso,

né per divisïon fatto vermiglio».



Paradiso · Canto XVII


Qual venne a Climenè, per accertarsi
di ciò ch’avëa incontro a sé udito,
quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi;

tal era io, e tal era sentito
e da Beatrice e da la santa lampa
che pria per me avea mutato sito.

Per che mia donna «Manda fuor la vampa
del tuo disio», mi disse, «sì ch’ella esca
segnata bene de la interna stampa:

non perché nostra conoscenza cresca
per tuo parlare, ma perché t’ausi
a dir la sete, sì che l’uom ti mesca».

«O cara piota mia che sì t’insusi,
che, come veggion le terrene menti
non capere in trïangol due ottusi,

così vedi le cose contingenti
anzi che sieno in sé, mirando il punto
a cui tutti li tempi son presenti;

mentre ch’io era a Virgilio congiunto
su per lo monte che l’anime cura
e discendendo nel mondo defunto,

dette mi fuor di mia vita futura
parole gravi, avvegna ch’io mi senta
ben tetragono ai colpi di ventura;

per che la voglia mia saria contenta
d’intender qual fortuna mi s’appressa:
ché saetta previsa vien più lenta».

Così diss’ io a quella luce stessa
che pria m’avea parlato; e come volle
Beatrice, fu la mia voglia confessa.

Né per ambage, in che la gente folle
già s’inviscava pria che fosse anciso
l’Agnel di Dio che le peccata tolle,

ma per chiare parole e con preciso
latin rispuose quello amor paterno,
chiuso e parvente del suo proprio riso:

«La contingenza, che fuor del quaderno
de la vostra matera non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto etterno;

necessità però quindi non prende
se non come dal viso in che si specchia
nave che per torrente giù discende.

Da indi, sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti s’apparecchia.

Qual si partio Ipolito d’Atene
per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene.

Questo si vuole e questo già si cerca,
e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
là dove Cristo tutto dì si merca.

La colpa seguirà la parte offensa
in grido, come suol; ma la vendetta
fia testimonio al ver che la dispensa.

Tu lascerai ogne cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l’arco de lo essilio pria saetta.

Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ’l salir per l’altrui scale.

E quel che più ti graverà le spalle,
sarà la compagnia malvagia e scempia
con la qual tu cadrai in questa valle;

che tutta ingrata, tutta matta ed empia
si farà contr’ a te; ma, poco appresso,
ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.

Di sua bestialitate il suo processo
farà la prova; sì ch’a te fia bello
averti fatta parte per te stesso.

Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che ’n su la scala porta il santo uccello;

ch’in te avrà sì benigno riguardo,
che del fare e del chieder, tra voi due,
fia primo quel che tra li altri è più tardo.

Con lui vedrai colui che ’mpresso fue,
nascendo, sì da questa stella forte,
che notabili fier l’opere sue.

Non se ne son le genti ancora accorte
per la novella età, ché pur nove anni
son queste rote intorno di lui torte;

ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni,
parran faville de la sua virtute
in non curar d’argento né d’affanni.

Le sue magnificenze conosciute
saranno ancora, sì che ’ suoi nemici
non ne potran tener le lingue mute.

A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;
per lui fia trasmutata molta gente,
cambiando condizion ricchi e mendici;

e portera’ne scritto ne la mente
di lui, e nol dirai»; e disse cose
incredibili a quei che fier presente.

Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose
di quel che ti fu detto; ecco le ’nsidie
che dietro a pochi giri son nascose.

Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,
poscia che s’infutura la tua vita
vie più là che ’l punir di lor perfidie».

Poi che, tacendo, si mostrò spedita
l’anima santa di metter la trama
in quella tela ch’io le porsi ordita,

io cominciai, come colui che brama,
dubitando, consiglio da persona
che vede e vuol dirittamente e ama:

«Ben veggio, padre mio, sì come sprona
lo tempo verso me, per colpo darmi
tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona;

per che di provedenza è buon ch’io m’armi,
sì che, se loco m’è tolto più caro,
io non perdessi li altri per miei carmi.

Giù per lo mondo sanza fine amaro,
e per lo monte del cui bel cacume
li occhi de la mia donna mi levaro,

e poscia per lo ciel, di lume in lume,
ho io appreso quel che s’io ridico,
a molti fia sapor di forte agrume;

e s’io al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico».

La luce in che rideva il mio tesoro
ch’io trovai lì, si fé prima corusca,
quale a raggio di sole specchio d’oro;

indi rispuose: «Coscïenza fusca
o de la propria o de l’altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.

Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’ è la rogna.

Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.

Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento.

Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note,

che l’animo di quel ch’ode, non posa
né ferma fede per essempro ch’aia
la sua radice incognita e ascosa,

né per altro argomento che non paia».



Paradiso · Canto XVIII


Già si godeva solo del suo verbo
quello specchio beato, e io gustava
lo mio, temprando col dolce l’acerbo;

e quella donna ch’a Dio mi menava
disse: «Muta pensier; pensa ch’i’ sono
presso a colui ch’ogne torto disgrava».

Io mi rivolsi a l’amoroso suono
del mio conforto; e qual io allor vidi
ne li occhi santi amor, qui l’abbandono:

non perch’ io pur del mio parlar diffidi,
ma per la mente che non può redire
sovra sé tanto, s’altri non la guidi.

Tanto poss’ io di quel punto ridire,
che, rimirando lei, lo mio affetto
libero fu da ogne altro disire,

fin che ’l piacere etterno, che diretto
raggiava in Bëatrice, dal bel viso
mi contentava col secondo aspetto.

Vincendo me col lume d’un sorriso,
ella mi disse: «Volgiti e ascolta;
ché non pur ne’ miei occhi è paradiso».

Come si vede qui alcuna volta
l’affetto ne la vista, s’elli è tanto,
che da lui sia tutta l’anima tolta,

così nel fiammeggiar del folgór santo,
a ch’io mi volsi, conobbi la voglia
in lui di ragionarmi ancora alquanto.

El cominciò: «In questa quinta soglia
de l’albero che vive de la cima
e frutta sempre e mai non perde foglia,

spiriti son beati, che giù, prima
che venissero al ciel, fuor di gran voce,
sì ch’ogne musa ne sarebbe opima.

Però mira ne’ corni de la croce:
quello ch’io nomerò, lì farà l’atto
che fa in nube il suo foco veloce».

Io vidi per la croce un lume tratto
dal nomar Iosuè, com’ el si feo;
né mi fu noto il dir prima che ’l fatto.

E al nome de l’alto Macabeo
vidi moversi un altro roteando,
e letizia era ferza del paleo.

Così per Carlo Magno e per Orlando
due ne seguì lo mio attento sguardo,
com’ occhio segue suo falcon volando.

Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo
e ’l duca Gottifredi la mia vista
per quella croce, e Ruberto Guiscardo.

Indi, tra l’altre luci mota e mista,
mostrommi l’alma che m’avea parlato
qual era tra i cantor del cielo artista.

Io mi rivolsi dal mio destro lato
per vedere in Beatrice il mio dovere,
o per parlare o per atto, segnato;

e vidi le sue luci tanto mere,
tanto gioconde, che la sua sembianza
vinceva li altri e l’ultimo solere.

E come, per sentir più dilettanza
bene operando, l’uom di giorno in giorno
s’accorge che la sua virtute avanza,

sì m’accors’ io che ’l mio girare intorno
col cielo insieme avea cresciuto l’arco,
veggendo quel miracol più addorno.

E qual è ’l trasmutare in picciol varco
di tempo in bianca donna, quando ’l volto
suo si discarchi di vergogna il carco,

tal fu ne li occhi miei, quando fui vòlto,
per lo candor de la temprata stella
sesta, che dentro a sé m’avea ricolto.

Io vidi in quella giovïal facella
lo sfavillar de l’amor che lì era
segnare a li occhi miei nostra favella.

E come augelli surti di rivera,
quasi congratulando a lor pasture,
fanno di sé or tonda or altra schiera,

sì dentro ai lumi sante creature
volitando cantavano, e faciensi
or D, or I, or L in sue figure.

Prima, cantando, a sua nota moviensi;
poi, diventando l’un di questi segni,
un poco s’arrestavano e taciensi.

O diva Pegasëa che li ’ngegni
fai glorïosi e rendili longevi,
ed essi teco le cittadi e ’ regni,

illustrami di te, sì ch’io rilevi
le lor figure com’ io l’ho concette:
paia tua possa in questi versi brevi!

Mostrarsi dunque in cinque volte sette
vocali e consonanti; e io notai
le parti sì, come mi parver dette.

‘DILIGITE IUSTITIAM’, primai
fur verbo e nome di tutto ’l dipinto;
‘QUI IUDICATIS TERRAM’, fur sezzai.

Poscia ne l’emme del vocabol quinto
rimasero ordinate; sì che Giove
pareva argento lì d’oro distinto.

E vidi scendere altre luci dove
era il colmo de l’emme, e lì quetarsi
cantando, credo, il ben ch’a sé le move.

Poi, come nel percuoter d’i ciocchi arsi
surgono innumerabili faville,
onde li stolti sogliono agurarsi,

resurger parver quindi più di mille
luci e salir, qual assai e qual poco,
sì come ’l sol che l’accende sortille;

e quïetata ciascuna in suo loco,
la testa e ’l collo d’un’aguglia vidi
rappresentare a quel distinto foco.

Quei che dipinge lì, non ha chi ’l guidi;
ma esso guida, e da lui si rammenta
quella virtù ch’è forma per li nidi.

L’altra bëatitudo, che contenta
pareva prima d’ingigliarsi a l’emme,
con poco moto seguitò la ’mprenta.

O dolce stella, quali e quante gemme
mi dimostraro che nostra giustizia
effetto sia del ciel che tu ingemme!

Per ch’io prego la mente in che s’inizia
tuo moto e tua virtute, che rimiri
ond’ esce il fummo che ’l tuo raggio vizia;

sì ch’un’altra fïata omai s’adiri
del comperare e vender dentro al templo
che si murò di segni e di martìri.

O milizia del ciel cu’ io contemplo,
adora per color che sono in terra
tutti svïati dietro al malo essemplo!

Già si solea con le spade far guerra;
ma or si fa togliendo or qui or quivi
lo pan che ’l pïo Padre a nessun serra.

Ma tu che sol per cancellare scrivi,
pensa che Pietro e Paulo, che moriro
per la vigna che guasti, ancor son vivi.

Ben puoi tu dire: «I’ ho fermo ’l disiro
sì a colui che volle viver solo
e che per salti fu tratto al martiro,

ch’io non conosco il pescator né Polo».



Paradiso · Canto XIX


Parea dinanzi a me con l’ali aperte
la bella image che nel dolce frui
liete facevan l’anime conserte;

parea ciascuna rubinetto in cui
raggio di sole ardesse sì acceso,
che ne’ miei occhi rifrangesse lui.

E quel che mi convien ritrar testeso,
non portò voce mai, né scrisse incostro,
né fu per fantasia già mai compreso;

ch’io vidi e anche udi’ parlar lo rostro,
e sonar ne la voce e «io» e «mio»,
quand’ era nel concetto e ‘noi’ e ‘nostro’.

E cominciò: «Per esser giusto e pio
son io qui essaltato a quella gloria
che non si lascia vincere a disio;

e in terra lasciai la mia memoria
sì fatta, che le genti lì malvage
commendan lei, ma non seguon la storia».

Così un sol calor di molte brage
si fa sentir, come di molti amori
usciva solo un suon di quella image.

Ond’ io appresso: «O perpetüi fiori
de l’etterna letizia, che pur uno
parer mi fate tutti vostri odori,

solvetemi, spirando, il gran digiuno
che lungamente m’ha tenuto in fame,
non trovandoli in terra cibo alcuno.

Ben so io che, se ’n cielo altro reame
la divina giustizia fa suo specchio,
che ’l vostro non l’apprende con velame.

Sapete come attento io m’apparecchio
ad ascoltar; sapete qual è quello
dubbio che m’è digiun cotanto vecchio».

Quasi falcone ch’esce del cappello,
move la testa e con l’ali si plaude,
voglia mostrando e faccendosi bello,

vid’ io farsi quel segno, che di laude
de la divina grazia era contesto,
con canti quai si sa chi là sù gaude.

Poi cominciò: «Colui che volse il sesto
a lo stremo del mondo, e dentro ad esso
distinse tanto occulto e manifesto,

non poté suo valor sì fare impresso
in tutto l’universo, che ’l suo verbo
non rimanesse in infinito eccesso.

E ciò fa certo che ’l primo superbo,
che fu la somma d’ogne creatura,
per non aspettar lume, cadde acerbo;

e quinci appar ch’ogne minor natura
è corto recettacolo a quel bene
che non ha fine e sé con sé misura.

Dunque vostra veduta, che convene
esser alcun de’ raggi de la mente
di che tutte le cose son ripiene,

non pò da sua natura esser possente
tanto, che suo principio discerna
molto di là da quel che l’è parvente.

Però ne la giustizia sempiterna
la vista che riceve il vostro mondo,
com’ occhio per lo mare, entro s’interna;

che, ben che da la proda veggia il fondo,
in pelago nol vede; e nondimeno
èli, ma cela lui l’esser profondo.

Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai; anzi è tenèbra
od ombra de la carne o suo veleno.

Assai t’è mo aperta la latebra
che t’ascondeva la giustizia viva,
di che facei question cotanto crebra;

ché tu dicevi: “Un uom nasce a la riva
de l’Indo, e quivi non è chi ragioni
di Cristo né chi legga né chi scriva;

e tutti suoi voleri e atti buoni
sono, quanto ragione umana vede,
sanza peccato in vita o in sermoni.

Muore non battezzato e sanza fede:
ov’ è questa giustizia che ’l condanna?
ov’ è la colpa sua, se ei non crede?”.

Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna,
per giudicar di lungi mille miglia
con la veduta corta d’una spanna?

Certo a colui che meco s’assottiglia,
se la Scrittura sovra voi non fosse,
da dubitar sarebbe a maraviglia.

Oh terreni animali! oh menti grosse!
La prima volontà, ch’è da sé buona,
da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse.

Cotanto è giusto quanto a lei consuona:
nullo creato bene a sé la tira,
ma essa, radïando, lui cagiona».

Quale sovresso il nido si rigira
poi c’ha pasciuti la cicogna i figli,
e come quel ch’è pasto la rimira;

cotal si fece, e sì leväi i cigli,
la benedetta imagine, che l’ali
movea sospinte da tanti consigli.

Roteando cantava, e dicea: «Quali
son le mie note a te, che non le ’ntendi,
tal è il giudicio etterno a voi mortali».

Poi si quetaro quei lucenti incendi
de lo Spirito Santo ancor nel segno
che fé i Romani al mondo reverendi,

esso ricominciò: «A questo regno
non salì mai chi non credette ’n Cristo,
né pria né poi ch’el si chiavasse al legno.

Ma vedi: molti gridan “Cristo, Cristo!”,
che saranno in giudicio assai men prope
a lui, che tal che non conosce Cristo;

e tai Cristian dannerà l’Etïòpe,
quando si partiranno i due collegi,
l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe.

Che poran dir li Perse a’ vostri regi,
come vedranno quel volume aperto
nel qual si scrivon tutti suoi dispregi?

Lì si vedrà, tra l’opere d’Alberto,
quella che tosto moverà la penna,
per che ’l regno di Praga fia diserto.

Lì si vedrà il duol che sovra Senna
induce, falseggiando la moneta,
quel che morrà di colpo di cotenna.

Lì si vedrà la superbia ch’asseta,
che fa lo Scotto e l’Inghilese folle,
sì che non può soffrir dentro a sua meta.

Vedrassi la lussuria e ’l viver molle
di quel di Spagna e di quel di Boemme,
che mai valor non conobbe né volle.

Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme
segnata con un i la sua bontate,
quando ’l contrario segnerà un emme.

Vedrassi l’avarizia e la viltate
di quei che guarda l’isola del foco,
ove Anchise finì la lunga etate;

e a dare ad intender quanto è poco,
la sua scrittura fian lettere mozze,
che noteranno molto in parvo loco.

E parranno a ciascun l’opere sozze
del barba e del fratel, che tanto egregia
nazione e due corone han fatte bozze.

E quel di Portogallo e di Norvegia
lì si conosceranno, e quel di Rascia
che male ha visto il conio di Vinegia.

Oh beata Ungheria, se non si lascia
più malmenare! e beata Navarra,
se s’armasse del monte che la fascia!

E creder de’ ciascun che già, per arra
di questo, Niccosïa e Famagosta
per la lor bestia si lamenti e garra,

che dal fianco de l’altre non si scosta».



Paradiso · Canto XX


Quando colui che tutto ’l mondo alluma
de l’emisperio nostro sì discende,
che ’l giorno d’ogne parte si consuma,

lo ciel, che sol di lui prima s’accende,
subitamente si rifà parvente
per molte luci, in che una risplende;

e questo atto del ciel mi venne a mente,
come ’l segno del mondo e de’ suoi duci
nel benedetto rostro fu tacente;

però che tutte quelle vive luci,
vie più lucendo, cominciaron canti
da mia memoria labili e caduci.

O dolce amor che di riso t’ammanti,
quanto parevi ardente in que’ flailli,
ch’avieno spirto sol di pensier santi!

Poscia che i cari e lucidi lapilli
ond’ io vidi ingemmato il sesto lume
puoser silenzio a li angelici squilli,

udir mi parve un mormorar di fiume
che scende chiaro giù di pietra in pietra,
mostrando l’ubertà del suo cacume.

E come suono al collo de la cetra
prende sua forma, e sì com’ al pertugio
de la sampogna vento che penètra,

così, rimosso d’aspettare indugio,
quel mormorar de l’aguglia salissi
su per lo collo, come fosse bugio.

Fecesi voce quivi, e quindi uscissi
per lo suo becco in forma di parole,
quali aspettava il core ov’ io le scrissi.

«La parte in me che vede e pate il sole
ne l’aguglie mortali», incominciommi,
«or fisamente riguardar si vole,

perché d’i fuochi ond’ io figura fommi,
quelli onde l’occhio in testa mi scintilla,
e’ di tutti lor gradi son li sommi.

Colui che luce in mezzo per pupilla,
fu il cantor de lo Spirito Santo,
che l’arca traslatò di villa in villa:

ora conosce il merto del suo canto,
in quanto effetto fu del suo consiglio,
per lo remunerar ch’è altrettanto.

Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio,
colui che più al becco mi s’accosta,
la vedovella consolò del figlio:

ora conosce quanto caro costa
non seguir Cristo, per l’esperïenza
di questa dolce vita e de l’opposta.

E quel che segue in la circunferenza
di che ragiono, per l’arco superno,
morte indugiò per vera penitenza:

ora conosce che ’l giudicio etterno
non si trasmuta, quando degno preco
fa crastino là giù de l’odïerno.

L’altro che segue, con le leggi e meco,
sotto buona intenzion che fé mal frutto,
per cedere al pastor si fece greco:

ora conosce come il mal dedutto
dal suo bene operar non li è nocivo,
avvegna che sia ’l mondo indi distrutto.

E quel che vedi ne l’arco declivo,
Guiglielmo fu, cui quella terra plora
che piagne Carlo e Federigo vivo:

ora conosce come s’innamora
lo ciel del giusto rege, e al sembiante
del suo fulgore il fa vedere ancora.

Chi crederebbe giù nel mondo errante
che Rifëo Troiano in questo tondo
fosse la quinta de le luci sante?

Ora conosce assai di quel che ’l mondo
veder non può de la divina grazia,
ben che sua vista non discerna il fondo».

Quale allodetta che ’n aere si spazia
prima cantando, e poi tace contenta
de l’ultima dolcezza che la sazia,

tal mi sembiò l’imago de la ’mprenta
de l’etterno piacere, al cui disio
ciascuna cosa qual ell’ è diventa.

E avvegna ch’io fossi al dubbiar mio
lì quasi vetro a lo color ch’el veste,
tempo aspettar tacendo non patio,

ma de la bocca, «Che cose son queste?»,
mi pinse con la forza del suo peso:
per ch’io di coruscar vidi gran feste.

Poi appresso, con l’occhio più acceso,
lo benedetto segno mi rispuose
per non tenermi in ammirar sospeso:

«Io veggio che tu credi queste cose
perch’ io le dico, ma non vedi come;
sì che, se son credute, sono ascose.

Fai come quei che la cosa per nome
apprende ben, ma la sua quiditate
veder non può se altri non la prome.

Regnum celorum vïolenza pate
da caldo amore e da viva speranza,
che vince la divina volontate:

non a guisa che l’omo a l’om sobranza,
ma vince lei perché vuole esser vinta,
e, vinta, vince con sua beninanza.

La prima vita del ciglio e la quinta
ti fa maravigliar, perché ne vedi
la regïon de li angeli dipinta.

D’i corpi suoi non uscir, come credi,
Gentili, ma Cristiani, in ferma fede
quel d’i passuri e quel d’i passi piedi.

Ché l’una de lo ’nferno, u’ non si riede
già mai a buon voler, tornò a l’ossa;
e ciò di viva spene fu mercede:

di viva spene, che mise la possa
ne’ prieghi fatti a Dio per suscitarla,
sì che potesse sua voglia esser mossa.

L’anima glorïosa onde si parla,
tornata ne la carne, in che fu poco,
credette in lui che potëa aiutarla;

e credendo s’accese in tanto foco
di vero amor, ch’a la morte seconda
fu degna di venire a questo gioco.

L’altra, per grazia che da sì profonda
fontana stilla, che mai creatura
non pinse l’occhio infino a la prima onda,

tutto suo amor là giù pose a drittura:
per che, di grazia in grazia, Dio li aperse
l’occhio a la nostra redenzion futura;

ond’ ei credette in quella, e non sofferse
da indi il puzzo più del paganesmo;
e riprendiene le genti perverse.

Quelle tre donne li fur per battesmo
che tu vedesti da la destra rota,
dinanzi al battezzar più d’un millesmo.

O predestinazion, quanto remota
è la radice tua da quelli aspetti
che la prima cagion non veggion tota!

E voi, mortali, tenetevi stretti
a giudicar: ché noi, che Dio vedemo,
non conosciamo ancor tutti li eletti;

ed ènne dolce così fatto scemo,
perché il ben nostro in questo ben s’affina,
che quel che vole Iddio, e noi volemo».

Così da quella imagine divina,
per farmi chiara la mia corta vista,
data mi fu soave medicina.

E come a buon cantor buon citarista
fa seguitar lo guizzo de la corda,
in che più di piacer lo canto acquista,

sì, mentre ch’e’ parlò, sì mi ricorda
ch’io vidi le due luci benedette,
pur come batter d’occhi si concorda,

con le parole mover le fiammette.



Paradiso · Canto XXI


Già eran li occhi miei rifissi al volto
de la mia donna, e l’animo con essi,
e da ogne altro intento s’era tolto.

E quella non ridea; ma «S’io ridessi»,
mi cominciò, «tu ti faresti quale
fu Semelè quando di cener fessi:

ché la bellezza mia, che per le scale
de l’etterno palazzo più s’accende,
com’ hai veduto, quanto più si sale,

se non si temperasse, tanto splende,
che ’l tuo mortal podere, al suo fulgore,
sarebbe fronda che trono scoscende.

Noi sem levati al settimo splendore,
che sotto ’l petto del Leone ardente
raggia mo misto giù del suo valore.

Ficca di retro a li occhi tuoi la mente,
e fa di quelli specchi a la figura
che ’n questo specchio ti sarà parvente».

Qual savesse qual era la pastura
del viso mio ne l’aspetto beato
quand’ io mi trasmutai ad altra cura,

conoscerebbe quanto m’era a grato
ubidire a la mia celeste scorta,
contrapesando l’un con l’altro lato.

Dentro al cristallo che ’l vocabol porta,
cerchiando il mondo, del suo caro duce
sotto cui giacque ogne malizia morta,

di color d’oro in che raggio traluce
vid’ io uno scaleo eretto in suso
tanto, che nol seguiva la mia luce.



 


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