Divina Commedia di Dante
by
Dante Alighieri

Part 2 out of 10



che, non men che saver, dubbiar m’aggrata.

Ancora in dietro un poco ti rivolvi»,
diss’ io, «là dove di’ ch’usura offende
la divina bontade, e ’l groppo solvi».

«Filosofia», mi disse, «a chi la ’ntende,
nota, non pure in una sola parte,
come natura lo suo corso prende

dal divino ’ntelletto e da sua arte;
e se tu ben la tua Fisica note,
tu troverai, non dopo molte carte,

che l’arte vostra quella, quanto pote,
segue, come ’l maestro fa ’l discente;
sì che vostr’ arte a Dio quasi è nepote.

Da queste due, se tu ti rechi a mente
lo Genesì dal principio, convene
prender sua vita e avanzar la gente;

e perché l’usuriere altra via tene,
per sé natura e per la sua seguace
dispregia, poi ch’in altro pon la spene.

Ma seguimi oramai che ’l gir mi piace;
ché i Pesci guizzan su per l’orizzonta,
e ’l Carro tutto sovra ’l Coro giace,

e ’l balzo via là oltra si dismonta».



Inferno · Canto XII


Era lo loco ov’ a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che v’er’ anco,
tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva.

Qual è quella ruina che nel fianco
di qua da Trento l’Adice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco,

che da cima del monte, onde si mosse,
al piano è sì la roccia discoscesa,
ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse:

cotal di quel burrato era la scesa;
e ’n su la punta de la rotta lacca
l’infamïa di Creti era distesa

che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sé stesso morse,
sì come quei cui l’ira dentro fiacca.

Lo savio mio inver’ lui gridò: «Forse
tu credi che qui sia ’l duca d’Atene,
che sù nel mondo la morte ti porse?

Pàrtiti, bestia, ché questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene».

Qual è quel toro che si slaccia in quella
c’ha ricevuto già ’l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e là saltella,

vid’ io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: «Corri al varco;
mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale».

Così prendemmo via giù per lo scarco
di quelle pietre, che spesso moviensi
sotto i miei piedi per lo novo carco.

Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi
forse a questa ruina, ch’è guardata
da quell’ ira bestial ch’i’ ora spensi.

Or vo’ che sappi che l’altra fïata
ch’i’ discesi qua giù nel basso inferno,
questa roccia non era ancor cascata.

Ma certo poco pria, se ben discerno,
che venisse colui che la gran preda
levò a Dite del cerchio superno,

da tutte parti l’alta valle feda
tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo
sentisse amor, per lo qual è chi creda

più volte il mondo in caòsso converso;
e in quel punto questa vecchia roccia,
qui e altrove, tal fece riverso.

Ma ficca li occhi a valle, ché s’approccia
la riviera del sangue in la qual bolle
qual che per vïolenza in altrui noccia».

Oh cieca cupidigia e ira folle,
che sì ci sproni ne la vita corta,
e ne l’etterna poi sì mal c’immolle!

Io vidi un’ampia fossa in arco torta,
come quella che tutto ’l piano abbraccia,
secondo ch’avea detto la mia scorta;

e tra ’l piè de la ripa ed essa, in traccia
corrien centauri, armati di saette,
come solien nel mondo andare a caccia.

Veggendoci calar, ciascun ristette,
e de la schiera tre si dipartiro
con archi e asticciuole prima elette;

e l’un gridò da lungi: «A qual martiro
venite voi che scendete la costa?
Ditel costinci; se non, l’arco tiro».

Lo mio maestro disse: «La risposta
farem noi a Chirón costà di presso:
mal fu la voglia tua sempre sì tosta».

Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso,
che morì per la bella Deianira,
e fé di sé la vendetta elli stesso.

E quel di mezzo, ch’al petto si mira,
è il gran Chirón, il qual nodrì Achille;
quell’ altro è Folo, che fu sì pien d’ira.

Dintorno al fosso vanno a mille a mille,
saettando qual anima si svelle
del sangue più che sua colpa sortille».

Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:
Chirón prese uno strale, e con la cocca
fece la barba in dietro a le mascelle.

Quando s’ebbe scoperta la gran bocca,
disse a’ compagni: «Siete voi accorti
che quel di retro move ciò ch’el tocca?

Così non soglion far li piè d’i morti».
E ’l mio buon duca, che già li er’ al petto,
dove le due nature son consorti,

rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto
mostrar li mi convien la valle buia;
necessità ’l ci ’nduce, e non diletto.

Tal si partì da cantare alleluia
che mi commise quest’ officio novo:
non è ladron, né io anima fuia.

Ma per quella virtù per cu’ io movo
li passi miei per sì selvaggia strada,
danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo,

e che ne mostri là dove si guada,
e che porti costui in su la groppa,
ché non è spirto che per l’aere vada».

Chirón si volse in su la destra poppa,
e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida,
e fa cansar s’altra schiera v’intoppa».

Or ci movemmo con la scorta fida
lungo la proda del bollor vermiglio,
dove i bolliti facieno alte strida.

Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e ’l gran centauro disse: «E’ son tiranni
che dier nel sangue e ne l’aver di piglio.

Quivi si piangon li spietati danni;
quivi è Alessandro, e Dïonisio fero
che fé Cicilia aver dolorosi anni.

E quella fronte c’ha ’l pel così nero,
è Azzolino; e quell’ altro ch’è biondo,
è Opizzo da Esti, il qual per vero

fu spento dal figliastro sù nel mondo».
Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
«Questi ti sia or primo, e io secondo».

Poco più oltre il centauro s’affisse
sovr’ una gente che ’nfino a la gola
parea che di quel bulicame uscisse.

Mostrocci un’ombra da l’un canto sola,
dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio
lo cor che ’n su Tamisi ancor si cola».

Poi vidi gente che di fuor del rio
tenean la testa e ancor tutto ’l casso;
e di costoro assai riconobb’ io.

Così a più a più si facea basso
quel sangue, sì che cocea pur li piedi;
e quindi fu del fosso il nostro passo.

«Sì come tu da questa parte vedi
lo bulicame che sempre si scema»,
disse ’l centauro, «voglio che tu credi

che da quest’ altra a più a più giù prema
lo fondo suo, infin ch’el si raggiunge
ove la tirannia convien che gema.

La divina giustizia di qua punge
quell’ Attila che fu flagello in terra,
e Pirro e Sesto; e in etterno munge

le lagrime, che col bollor diserra,
a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
che fecero a le strade tanta guerra».

Poi si rivolse e ripassossi ’l guazzo.



Inferno · Canto XIII


Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.

Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco.

Non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che ’n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.

Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.

Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.

E ’l buon maestro «Prima che più entre,
sappi che se’ nel secondo girone»,
mi cominciò a dire, «e sarai mentre

che tu verrai ne l’orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone».

Io sentia d’ogne parte trarre guai
e non vedea persona che ’l facesse;
per ch’io tutto smarrito m’arrestai.

Cred’ ïo ch’ei credette ch’io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
da gente che per noi si nascondesse.

Però disse ’l maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta d’una d’este piante,
li pensier c’hai si faran tutti monchi».

Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’ esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi».

Come d’un stizzo verde ch’arso sia
da l’un de’ capi, che da l’altro geme
e cigola per vento che va via,

sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond’ io lasciai la cima
cadere, e stetti come l’uom che teme.

«S’elli avesse potuto creder prima»,
rispuose ’l savio mio, «anima lesa,
ciò c’ha veduto pur con la mia rima,

non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa.

Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n vece
d’alcun’ ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece».

E ’l tronco: «Sì col dolce dir m’adeschi,
ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi
perch’ ïo un poco a ragionar m’inveschi.

Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,

che dal secreto suo quasi ogn’ uom tolsi;
fede portai al glorïoso offizio,
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi.

La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,

infiammò contra me li animi tutti;
e li ’nfiammati infiammar sì Augusto,
che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti.

L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.

Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d’onor sì degno.

E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che ’nvidia le diede».

Un poco attese, e poi «Da ch’el si tace»,
disse ’l poeta a me, «non perder l’ora;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».

Ond’ ïo a lui: «Domandal tu ancora
di quel che credi ch’a me satisfaccia;
ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora».

Perciò ricominciò: «Se l’om ti faccia
liberamente ciò che ’l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia

di dirne come l’anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s’alcuna mai di tai membra si spiega».

Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
«Brievemente sarà risposto a voi.

Quando si parte l’anima feroce
dal corpo ond’ ella stessa s’è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce.

Cade in la selva, e non l’è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.

Surge in vermena e in pianta silvestra:
l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.

Come l’altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch’alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.

Qui le strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l’ombra sua molesta».

Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch’altro ne volesse dire,
quando noi fummo d’un romor sorpresi,

similemente a colui che venire
sente ’l porco e la caccia a la sua posta,
ch’ode le bestie, e le frasche stormire.

Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogne rosta.

Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».
E l’altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: «Lano, sì non furo accorte

le gambe tue a le giostre dal Toppo!».
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d’un cespuglio fece un groppo.

Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch’uscisser di catena.

In quel che s’appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.

Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea
per le rotture sanguinenti in vano.

«O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea,
che t’è giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?».

Quando ’l maestro fu sovr’ esso fermo,
disse: «Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?».

Ed elli a noi: «O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c’ha le mie fronde sì da me disgiunte,

raccoglietele al piè del tristo cesto.
I’ fui de la città che nel Batista
mutò ’l primo padrone; ond’ ei per questo

sempre con l’arte sua la farà trista;
e se non fosse che ’n sul passo d’Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,

que’ cittadin che poi la rifondarno
sovra ’l cener che d’Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.

Io fei gibetto a me de le mie case».



Inferno · Canto XIV


Poi che la carità del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte
e rende’le a colui, ch’era già fioco.

Indi venimmo al fine ove si parte
lo secondo giron dal terzo, e dove
si vede di giustizia orribil arte.

A ben manifestar le cose nove,
dico che arrivammo ad una landa
che dal suo letto ogne pianta rimove.

La dolorosa selva l’è ghirlanda
intorno, come ’l fosso tristo ad essa;
quivi fermammo i passi a randa a randa.

Lo spazzo era una rena arida e spessa,
non d’altra foggia fatta che colei
che fu da’ piè di Caton già soppressa.

O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta da ciascun che legge
ciò che fu manifesto a li occhi mei!

D’anime nude vidi molte gregge
che piangean tutte assai miseramente,
e parea posta lor diversa legge.

Supin giacea in terra alcuna gente,
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continüamente.

Quella che giva ’ntorno era più molta,
e quella men che giacëa al tormento,
ma più al duolo avea la lingua sciolta.

Sovra tutto ’l sabbion, d’un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento.

Quali Alessandro in quelle parti calde
d’Indïa vide sopra ’l süo stuolo
fiamme cadere infino a terra salde,

per ch’ei provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, acciò che lo vapore
mei si stingueva mentre ch’era solo:

tale scendeva l’etternale ardore;
onde la rena s’accendea, com’ esca
sotto focile, a doppiar lo dolore.

Sanza riposo mai era la tresca
de le misere mani, or quindi or quinci
escotendo da sé l’arsura fresca.

I’ cominciai: «Maestro, tu che vinci
tutte le cose, fuor che ’ demon duri
ch’a l’intrar de la porta incontra uscinci,

chi è quel grande che non par che curi
lo ’ncendio e giace dispettoso e torto,
sì che la pioggia non par che ’l marturi?».

E quel medesmo, che si fu accorto
ch’io domandava il mio duca di lui,
gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto.

Se Giove stanchi ’l suo fabbro da cui
crucciato prese la folgore aguta
onde l’ultimo dì percosso fui;

o s’elli stanchi li altri a muta a muta
in Mongibello a la focina negra,
chiamando “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!”,

sì com’ el fece a la pugna di Flegra,
e me saetti con tutta sua forza:
non ne potrebbe aver vendetta allegra».

Allora il duca mio parlò di forza
tanto, ch’i’ non l’avea sì forte udito:
«O Capaneo, in ciò che non s’ammorza

la tua superbia, se’ tu più punito;
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
sarebbe al tuo furor dolor compito».

Poi si rivolse a me con miglior labbia,
dicendo: «Quei fu l’un d’i sette regi
ch’assiser Tebe; ed ebbe e par ch’elli abbia

Dio in disdegno, e poco par che ’l pregi;
ma, com’ io dissi lui, li suoi dispetti
sono al suo petto assai debiti fregi.

Or mi vien dietro, e guarda che non metti,
ancor, li piedi ne la rena arsiccia;
ma sempre al bosco tien li piedi stretti».

Tacendo divenimmo là ’ve spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi raccapriccia.

Quale del Bulicame esce ruscello
che parton poi tra lor le peccatrici,
tal per la rena giù sen giva quello.

Lo fondo suo e ambo le pendici
fatt’ era ’n pietra, e ’ margini dallato;
per ch’io m’accorsi che ’l passo era lici.

«Tra tutto l’altro ch’i’ t’ho dimostrato,
poscia che noi intrammo per la porta
lo cui sogliare a nessuno è negato,

cosa non fu da li tuoi occhi scorta
notabile com’ è ’l presente rio,
che sovra sé tutte fiammelle ammorta».

Queste parole fuor del duca mio;
per ch’io ’l pregai che mi largisse ’l pasto
di cui largito m’avëa il disio.

«In mezzo mar siede un paese guasto»,
diss’ elli allora, «che s’appella Creta,
sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto.

Una montagna v’è che già fu lieta
d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida;
or è diserta come cosa vieta.

Rëa la scelse già per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
quando piangea, vi facea far le grida.

Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
che tien volte le spalle inver’ Dammiata
e Roma guarda come süo speglio.

La sua testa è di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e ’l petto,
poi è di rame infino a la forcata;

da indi in giuso è tutto ferro eletto,
salvo che ’l destro piede è terra cotta;
e sta ’n su quel, più che ’n su l’altro, eretto.

Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta
d’una fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, fóran quella grotta.

Lor corso in questa valle si diroccia;
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia,

infin, là ove più non si dismonta,
fanno Cocito; e qual sia quello stagno
tu lo vedrai, però qui non si conta».

E io a lui: «Se ’l presente rigagno
si diriva così dal nostro mondo,
perché ci appar pur a questo vivagno?».

Ed elli a me: «Tu sai che ’l loco è tondo;
e tutto che tu sie venuto molto,
pur a sinistra, giù calando al fondo,

non se’ ancor per tutto ’l cerchio vòlto;
per che, se cosa n’apparisce nova,
non de’ addur maraviglia al tuo volto».

E io ancor: «Maestro, ove si trova
Flegetonta e Letè? ché de l’un taci,
e l’altro di’ che si fa d’esta piova».

«In tutte tue question certo mi piaci»,
rispuose, «ma ’l bollor de l’acqua rossa
dovea ben solver l’una che tu faci.

Letè vedrai, ma fuor di questa fossa,
là dove vanno l’anime a lavarsi
quando la colpa pentuta è rimossa».

Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi
dal bosco; fa che di retro a me vegne:
li margini fan via, che non son arsi,

e sopra loro ogne vapor si spegne».



Inferno · Canto XV


Ora cen porta l’un de’ duri margini;
e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia,
sì che dal foco salva l’acqua e li argini.

Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa,
fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;

e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:

a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che si fosse, lo maestro félli.

Già eravam da la selva rimossi
tanto, ch’i’ non avrei visto dov’ era,
perch’ io in dietro rivolto mi fossi,

quando incontrammo d’anime una schiera
che venian lungo l’argine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera

guardare uno altro sotto nuova luna;
e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia
come ’l vecchio sartor fa ne la cruna.

Così adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!».

E io, quando ’l suo braccio a me distese,
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che ’l viso abbrusciato non difese

la conoscenza süa al mio ’ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?».

E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia».

I’ dissi lui: «Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m’asseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco».

«O figliuol», disse, «qual di questa greggia
s’arresta punto, giace poi cent’ anni
sanz’ arrostarsi quando ’l foco il feggia.

Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni;
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni».

Io non osava scender de la strada
per andar par di lui; ma ’l capo chino
tenea com’ uom che reverente vada.

El cominciò: «Qual fortuna o destino
anzi l’ultimo dì qua giù ti mena?
e chi è questi che mostra ’l cammino?».

«Là sù di sopra, in la vita serena»,
rispuos’ io lui, «mi smarri’ in una valle,
avanti che l’età mia fosse piena.

Pur ier mattina le volsi le spalle:
questi m’apparve, tornand’ ïo in quella,
e reducemi a ca per questo calle».

Ed elli a me: «Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m’accorsi ne la vita bella;

e s’io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t’avrei a l’opera conforto.

Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,

ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.

Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent’ è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.

La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l’una parte e l’altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l’erba.

Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s’alcuna surge ancora in lor letame,

in cui riviva la sementa santa
di que’ Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta».

«Se fosse tutto pieno il mio dimando»,
rispuos’ io lui, «voi non sareste ancora
de l’umana natura posto in bando;

ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora

m’insegnavate come l’uom s’etterna:
e quant’ io l’abbia in grado, mentr’ io vivo
convien che ne la mia lingua si scerna.

Ciò che narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che saprà, s’a lei arrivo.

Tanto vogl’ io che vi sia manifesto,
pur che mia coscïenza non mi garra,
ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.

Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e ’l villan la sua marra».

Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;
poi disse: «Bene ascolta chi la nota».

Né per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono
li suoi compagni più noti e più sommi.

Ed elli a me: «Saper d’alcuno è buono;
de li altri fia laudabile tacerci,
ché ’l tempo saria corto a tanto suono.

In somma sappi che tutti fur cherci
e litterati grandi e di gran fama,
d’un peccato medesmo al mondo lerci.

Priscian sen va con quella turba grama,
e Francesco d’Accorso anche; e vedervi,
s’avessi avuto di tal tigna brama,

colui potei che dal servo de’ servi
fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione,
dove lasciò li mal protesi nervi.

Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone
più lungo esser non può, però ch’i’ veggio
là surger nuovo fummo del sabbione.

Gente vien con la quale esser non deggio.
Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio».

Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro

quelli che vince, non colui che perde.



Inferno · Canto XVI


Già era in loco onde s’udia ’l rimbombo
de l’acqua che cadea ne l’altro giro,
simile a quel che l’arnie fanno rombo,

quando tre ombre insieme si partiro,
correndo, d’una torma che passava
sotto la pioggia de l’aspro martiro.

Venian ver’ noi, e ciascuna gridava:
«Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri
esser alcun di nostra terra prava».

Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri,
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri.

A le lor grida il mio dottor s’attese;
volse ’l viso ver’ me, e «Or aspetta»,
disse, «a costor si vuole esser cortese.

E se non fosse il foco che saetta
la natura del loco, i’ dicerei
che meglio stesse a te che a lor la fretta».

Ricominciar, come noi restammo, ei
l’antico verso; e quando a noi fuor giunti,
fenno una rota di sé tutti e trei.

Qual sogliono i campion far nudi e unti,
avvisando lor presa e lor vantaggio,
prima che sien tra lor battuti e punti,

così rotando, ciascuno il visaggio
drizzava a me, sì che ’n contraro il collo
faceva ai piè continüo vïaggio.

E «Se miseria d’esto loco sollo
rende in dispetto noi e nostri prieghi»,
cominciò l’uno, «e ’l tinto aspetto e brollo,

la fama nostra il tuo animo pieghi
a dirne chi tu se’, che i vivi piedi
così sicuro per lo ’nferno freghi.

Questi, l’orme di cui pestar mi vedi,
tutto che nudo e dipelato vada,
fu di grado maggior che tu non credi:

nepote fu de la buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
fece col senno assai e con la spada.

L’altro, ch’appresso me la rena trita,
è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
nel mondo sù dovria esser gradita.

E io, che posto son con loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui, e certo
la fiera moglie più ch’altro mi nuoce».

S’i’ fossi stato dal foco coperto,
gittato mi sarei tra lor di sotto,
e credo che ’l dottor l’avria sofferto;

ma perch’ io mi sarei brusciato e cotto,
vinse paura la mia buona voglia
che di loro abbracciar mi facea ghiotto.

Poi cominciai: «Non dispetto, ma doglia
la vostra condizion dentro mi fisse,
tanta che tardi tutta si dispoglia,

tosto che questo mio segnor mi disse
parole per le quali i’ mi pensai
che qual voi siete, tal gente venisse.

Di vostra terra sono, e sempre mai
l’ovra di voi e li onorati nomi
con affezion ritrassi e ascoltai.

Lascio lo fele e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
ma ’nfino al centro pria convien ch’i’ tomi».

«Se lungamente l’anima conduca
le membra tue», rispuose quelli ancora,
«e se la fama tua dopo te luca,

cortesia e valor dì se dimora
ne la nostra città sì come suole,
o se del tutto se n’è gita fora;

ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va là coi compagni,
assai ne cruccia con le sue parole».

«La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni».

Così gridai con la faccia levata;
e i tre, che ciò inteser per risposta,
guardar l’un l’altro com’ al ver si guata.

«Se l’altre volte sì poco ti costa»,
rispuoser tutti, «il satisfare altrui,
felice te se sì parli a tua posta!

Però, se campi d’esti luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,
quando ti gioverà dicere “I’ fui”,

fa che di noi a la gente favelle».
Indi rupper la rota, e a fuggirsi
ali sembiar le gambe loro isnelle.

Un amen non saria possuto dirsi
tosto così com’ e’ fuoro spariti;
per ch’al maestro parve di partirsi.

Io lo seguiva, e poco eravam iti,
che ’l suon de l’acqua n’era sì vicino,
che per parlar saremmo a pena uditi.

Come quel fiume c’ha proprio cammino
prima dal Monte Viso ’nver’ levante,
da la sinistra costa d’Apennino,

che si chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante,

rimbomba là sovra San Benedetto
de l’Alpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto;

così, giù d’una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell’ acqua tinta,
sì che ’n poc’ ora avria l’orecchia offesa.

Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta.

Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta,
sì come ’l duca m’avea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta.

Ond’ ei si volse inver’ lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
la gittò giuso in quell’ alto burrato.

‘E’ pur convien che novità risponda’,
dicea fra me medesmo, ‘al novo cenno
che ’l maestro con l’occhio sì seconda’.

Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
presso a color che non veggion pur l’ovra,
ma per entro i pensier miran col senno!

El disse a me: «Tosto verrà di sovra
ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna;
tosto convien ch’al tuo viso si scovra».

Sempre a quel ver c’ha faccia di menzogna
de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote,
però che sanza colpa fa vergogna;

ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,
s’elle non sien di lunga grazia vòte,

ch’i’ vidi per quell’ aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro,

sì come torna colui che va giuso
talora a solver l’àncora ch’aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,

che ’n sù si stende e da piè si rattrappa.



Inferno · Canto XVII


«Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti e rompe i muri e l’armi!
Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza!».

Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;
e accennolle che venisse a proda,
vicino al fin d’i passeggiati marmi.

E quella sozza imagine di froda
sen venne, e arrivò la testa e ’l busto,
ma ’n su la riva non trasse la coda.

La faccia sua era faccia d’uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d’un serpente tutto l’altro fusto;

due branche avea pilose insin l’ascelle;
lo dosso e ’l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle.

Con più color, sommesse e sovraposte
non fer mai drappi Tartari né Turchi,
né fuor tai tele per Aragne imposte.

Come talvolta stanno a riva i burchi,
che parte sono in acqua e parte in terra,
e come là tra li Tedeschi lurchi

lo bivero s’assetta a far sua guerra,
così la fiera pessima si stava
su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra.

Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in sù la venenosa forca
ch’a guisa di scorpion la punta armava.

Lo duca disse: «Or convien che si torca
la nostra via un poco insino a quella
bestia malvagia che colà si corca».

Però scendemmo a la destra mammella,
e diece passi femmo in su lo stremo,
per ben cessar la rena e la fiammella.

E quando noi a lei venuti semo,
poco più oltre veggio in su la rena
gente seder propinqua al loco scemo.

Quivi ’l maestro «Acciò che tutta piena
esperïenza d’esto giron porti»,
mi disse, «va, e vedi la lor mena.

Li tuoi ragionamenti sian là corti;
mentre che torni, parlerò con questa,
che ne conceda i suoi omeri forti».

Così ancor su per la strema testa
di quel settimo cerchio tutto solo
andai, dove sedea la gente mesta.

Per li occhi fora scoppiava lor duolo;
di qua, di là soccorrien con le mani
quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:

non altrimenti fan di state i cani
or col ceffo or col piè, quando son morsi
o da pulci o da mosche o da tafani.

Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
ne’ quali ’l doloroso foco casca,
non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi

che dal collo a ciascun pendea una tasca
ch’avea certo colore e certo segno,
e quindi par che ’l loro occhio si pasca.

E com’ io riguardando tra lor vegno,
in una borsa gialla vidi azzurro
che d’un leone avea faccia e contegno.

Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
vidine un’altra come sangue rossa,
mostrando un’oca bianca più che burro.

E un che d’una scrofa azzurra e grossa
segnato avea lo suo sacchetto bianco,
mi disse: «Che fai tu in questa fossa?

Or te ne va; e perché se’ vivo anco,
sappi che ’l mio vicin Vitalïano
sederà qui dal mio sinistro fianco.

Con questi Fiorentin son padoano:
spesse fïate mi ’ntronan li orecchi
gridando: “Vegna ’l cavalier sovrano,

che recherà la tasca con tre becchi!”».
Qui distorse la bocca e di fuor trasse
la lingua, come bue che ’l naso lecchi.

E io, temendo no ’l più star crucciasse
lui che di poco star m’avea ’mmonito,
torna’mi in dietro da l’anime lasse.

Trova’ il duca mio ch’era salito
già su la groppa del fiero animale,
e disse a me: «Or sie forte e ardito.

Omai si scende per sì fatte scale;
monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo,
sì che la coda non possa far male».

Qual è colui che sì presso ha ’l riprezzo
de la quartana, c’ha già l’unghie smorte,
e triema tutto pur guardando ’l rezzo,

tal divenn’ io a le parole porte;
ma vergogna mi fé le sue minacce,
che innanzi a buon segnor fa servo forte.

I’ m’assettai in su quelle spallacce;
sì volli dir, ma la voce non venne
com’ io credetti: ‘Fa che tu m’abbracce’.

Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto ch’i’ montai
con le braccia m’avvinse e mi sostenne;

e disse: «Gerïon, moviti omai:
le rote larghe, e lo scender sia poco;
pensa la nova soma che tu hai».

Come la navicella esce di loco
in dietro in dietro, sì quindi si tolse;
e poi ch’al tutto si sentì a gioco,

là ’v’ era ’l petto, la coda rivolse,
e quella tesa, come anguilla, mosse,
e con le branche l’aere a sé raccolse.

Maggior paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandonò li freni,
per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse;

né quando Icaro misero le reni
sentì spennar per la scaldata cera,
gridando il padre a lui «Mala via tieni!»,

che fu la mia, quando vidi ch’i’ era
ne l’aere d’ogne parte, e vidi spenta
ogne veduta fuor che de la fera.

Ella sen va notando lenta lenta;
rota e discende, ma non me n’accorgo
se non che al viso e di sotto mi venta.

Io sentia già da la man destra il gorgo
far sotto noi un orribile scroscio,
per che con li occhi ’n giù la testa sporgo.

Allor fu’ io più timido a lo stoscio,
però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti;
ond’ io tremando tutto mi raccoscio.

E vidi poi, ché nol vedea davanti,
lo scendere e ’l girar per li gran mali
che s’appressavan da diversi canti.

Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere «Omè, tu cali!»,

discende lasso onde si move isnello,
per cento rote, e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e fello;

così ne puose al fondo Gerïone
al piè al piè de la stagliata rocca,
e, discarcate le nostre persone,

si dileguò come da corda cocca.



Inferno · Canto XVIII


Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge.

Nel dritto mezzo del campo maligno
vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
di cui suo loco dicerò l’ordigno.

Quel cinghio che rimane adunque è tondo
tra ’l pozzo e ’l piè de l’alta ripa dura,
e ha distinto in dieci valli il fondo.

Quale, dove per guardia de le mura
più e più fossi cingon li castelli,
la parte dove son rende figura,

tale imagine quivi facean quelli;
e come a tai fortezze da’ lor sogli
a la ripa di fuor son ponticelli,

così da imo de la roccia scogli
movien che ricidien li argini e ’ fossi
infino al pozzo che i tronca e raccogli.

In questo luogo, de la schiena scossi
di Gerïon, trovammoci; e ’l poeta
tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.

A la man destra vidi nova pieta,
novo tormento e novi frustatori,
di che la prima bolgia era repleta.

Nel fondo erano ignudi i peccatori;
dal mezzo in qua ci venien verso ’l volto,
di là con noi, ma con passi maggiori,

come i Roman per l’essercito molto,
l’anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto,

che da l’un lato tutti hanno la fronte
verso ’l castello e vanno a Santo Pietro,
da l’altra sponda vanno verso ’l monte.

Di qua, di là, su per lo sasso tetro
vidi demon cornuti con gran ferze,
che li battien crudelmente di retro.

Ahi come facean lor levar le berze
a le prime percosse! già nessuno
le seconde aspettava né le terze.

Mentr’ io andava, li occhi miei in uno
furo scontrati; e io sì tosto dissi:
«Già di veder costui non son digiuno».

Per ch’ïo a figurarlo i piedi affissi;
e ’l dolce duca meco si ristette,
e assentio ch’alquanto in dietro gissi.

E quel frustato celar si credette
bassando ’l viso; ma poco li valse,
ch’io dissi: «O tu che l’occhio a terra gette,

se le fazion che porti non son false,
Venedico se’ tu Caccianemico.
Ma che ti mena a sì pungenti salse?».

Ed elli a me: «Mal volontier lo dico;
ma sforzami la tua chiara favella,
che mi fa sovvenir del mondo antico.

I’ fui colui che la Ghisolabella
condussi a far la voglia del marchese,
come che suoni la sconcia novella.

E non pur io qui piango bolognese;
anzi n’è questo loco tanto pieno,
che tante lingue non son ora apprese

a dicer ‘sipa’ tra Sàvena e Reno;
e se di ciò vuoi fede o testimonio,
rècati a mente il nostro avaro seno».

Così parlando il percosse un demonio
de la sua scurïada, e disse: «Via,
ruffian! qui non son femmine da conio».

I’ mi raggiunsi con la scorta mia;
poscia con pochi passi divenimmo
là ’v’ uno scoglio de la ripa uscia.

Assai leggeramente quel salimmo;
e vòlti a destra su per la sua scheggia,
da quelle cerchie etterne ci partimmo.

Quando noi fummo là dov’ el vaneggia
di sotto per dar passo a li sferzati,
lo duca disse: «Attienti, e fa che feggia

lo viso in te di quest’ altri mal nati,
ai quali ancor non vedesti la faccia
però che son con noi insieme andati».

Del vecchio ponte guardavam la traccia
che venìa verso noi da l’altra banda,
e che la ferza similmente scaccia.

E ’l buon maestro, sanza mia dimanda,
mi disse: «Guarda quel grande che vene,
e per dolor non par lagrime spanda:

quanto aspetto reale ancor ritene!
Quelli è Iasón, che per cuore e per senno
li Colchi del monton privati féne.

Ello passò per l’isola di Lenno
poi che l’ardite femmine spietate
tutti li maschi loro a morte dienno.

Ivi con segni e con parole ornate
Isifile ingannò, la giovinetta
che prima avea tutte l’altre ingannate.

Lasciolla quivi, gravida, soletta;
tal colpa a tal martiro lui condanna;
e anche di Medea si fa vendetta.

Con lui sen va chi da tal parte inganna;
e questo basti de la prima valle
sapere e di color che ’n sé assanna».

Già eravam là ’ve lo stretto calle
con l’argine secondo s’incrocicchia,
e fa di quello ad un altr’ arco spalle.

Quindi sentimmo gente che si nicchia
ne l’altra bolgia e che col muso scuffa,
e sé medesma con le palme picchia.

Le ripe eran grommate d’una muffa,
per l’alito di giù che vi s’appasta,
che con li occhi e col naso facea zuffa.

Lo fondo è cupo sì, che non ci basta
loco a veder sanza montare al dosso
de l’arco, ove lo scoglio più sovrasta.

Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso
vidi gente attuffata in uno sterco
che da li uman privadi parea mosso.

E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco,
vidi un col capo sì di merda lordo,
che non parëa s’era laico o cherco.

Quei mi sgridò: «Perché se’ tu sì gordo
di riguardar più me che li altri brutti?».
E io a lui: «Perché, se ben ricordo,

già t’ho veduto coi capelli asciutti,
e se’ Alessio Interminei da Lucca:
però t’adocchio più che li altri tutti».

Ed elli allor, battendosi la zucca:
«Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe
ond’ io non ebbi mai la lingua stucca».

Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe»,
mi disse, «il viso un poco più avante,
sì che la faccia ben con l’occhio attinghe

di quella sozza e scapigliata fante
che là si graffia con l’unghie merdose,
e or s’accoscia e ora è in piedi stante.

Taïde è, la puttana che rispuose
al drudo suo quando disse “Ho io grazie
grandi apo te?”: “Anzi maravigliose!”.

E quinci sian le nostre viste sazie».



Inferno · Canto XIX


O Simon mago, o miseri seguaci
che le cose di Dio, che di bontate
deon essere spose, e voi rapaci

per oro e per argento avolterate,
or convien che per voi suoni la tromba,
però che ne la terza bolgia state.

Già eravamo, a la seguente tomba,
montati de lo scoglio in quella parte
ch’a punto sovra mezzo ’l fosso piomba.

O somma sapïenza, quanta è l’arte
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,
e quanto giusto tua virtù comparte!

Io vidi per le coste e per lo fondo
piena la pietra livida di fóri,
d’un largo tutti e ciascun era tondo.

Non mi parean men ampi né maggiori
che que’ che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per loco d’i battezzatori;

l’un de li quali, ancor non è molt’ anni,
rupp’ io per un che dentro v’annegava:
e questo sia suggel ch’ogn’ omo sganni.

Fuor de la bocca a ciascun soperchiava
d’un peccator li piedi e de le gambe
infino al grosso, e l’altro dentro stava.

Le piante erano a tutti accese intrambe;
per che sì forte guizzavan le giunte,
che spezzate averien ritorte e strambe.

Qual suole il fiammeggiar de le cose unte
muoversi pur su per la strema buccia,
tal era lì dai calcagni a le punte.

«Chi è colui, maestro, che si cruccia
guizzando più che li altri suoi consorti»,
diss’ io, «e cui più roggia fiamma succia?».

Ed elli a me: «Se tu vuo’ ch’i’ ti porti
là giù per quella ripa che più giace,
da lui saprai di sé e de’ suoi torti».

E io: «Tanto m’è bel, quanto a te piace:
tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto
dal tuo volere, e sai quel che si tace».

Allor venimmo in su l’argine quarto;
volgemmo e discendemmo a mano stanca
là giù nel fondo foracchiato e arto.

Lo buon maestro ancor de la sua anca
non mi dipuose, sì mi giunse al rotto
di quel che si piangeva con la zanca.

«O qual che se’ che ’l di sù tien di sotto,
anima trista come pal commessa»,
comincia’ io a dir, «se puoi, fa motto».

Io stava come ’l frate che confessa
lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto,
richiama lui per che la morte cessa.

Ed el gridò: «Se’ tu già costì ritto,
se’ tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.

Se’ tu sì tosto di quell’ aver sazio
per lo qual non temesti tòrre a ’nganno
la bella donna, e poi di farne strazio?».

Tal mi fec’ io, quai son color che stanno,
per non intender ciò ch’è lor risposto,
quasi scornati, e risponder non sanno.

Allor Virgilio disse: «Dilli tosto:
“Non son colui, non son colui che credi”»;
e io rispuosi come a me fu imposto.

Per che lo spirto tutti storse i piedi;
poi, sospirando e con voce di pianto,
mi disse: «Dunque che a me richiedi?

Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto,
che tu abbi però la ripa corsa,
sappi ch’i’ fui vestito del gran manto;

e veramente fui figliuol de l’orsa,
cupido sì per avanzar li orsatti,
che sù l’avere e qui me misi in borsa.

Di sotto al capo mio son li altri tratti
che precedetter me simoneggiando,
per le fessure de la pietra piatti.

Là giù cascherò io altresì quando
verrà colui ch’i’ credea che tu fossi,
allor ch’i’ feci ’l sùbito dimando.

Ma più è ’l tempo già che i piè mi cossi
e ch’i’ son stato così sottosopra,
ch’el non starà piantato coi piè rossi:

ché dopo lui verrà di più laida opra,
di ver’ ponente, un pastor sanza legge,
tal che convien che lui e me ricuopra.

Nuovo Iasón sarà, di cui si legge
ne’ Maccabei; e come a quel fu molle
suo re, così fia lui chi Francia regge».

Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle,
ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro:
«Deh, or mi dì: quanto tesoro volle

Nostro Segnore in prima da san Pietro
ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non “Viemmi retro”.

Né Pier né li altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdé l’anima ria.

Però ti sta, ché tu se’ ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
ch’esser ti fece contra Carlo ardito.

E se non fosse ch’ancor lo mi vieta
la reverenza de le somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta,

io userei parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
calcando i buoni e sollevando i pravi.

Di voi pastor s’accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l’acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;

quella che con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque.

Fatto v’avete dio d’oro e d’argento;
e che altro è da voi a l’idolatre,
se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?

Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!».

E mentr’ io li cantava cotai note,
o ira o coscïenza che ’l mordesse,
forte spingava con ambo le piote.

I’ credo ben ch’al mio duca piacesse,
con sì contenta labbia sempre attese
lo suon de le parole vere espresse.

Però con ambo le braccia mi prese;
e poi che tutto su mi s’ebbe al petto,
rimontò per la via onde discese.

Né si stancò d’avermi a sé distretto,
sì men portò sovra ’l colmo de l’arco
che dal quarto al quinto argine è tragetto.

Quivi soavemente spuose il carco,
soave per lo scoglio sconcio ed erto
che sarebbe a le capre duro varco.

Indi un altro vallon mi fu scoperto.



Inferno · Canto XX


Di nova pena mi conven far versi
e dar matera al ventesimo canto
de la prima canzon, ch’è d’i sommersi.

Io era già disposto tutto quanto
a riguardar ne lo scoperto fondo,
che si bagnava d’angoscioso pianto;

e vidi gente per lo vallon tondo
venir, tacendo e lagrimando, al passo
che fanno le letane in questo mondo.

Come ’l viso mi scese in lor più basso,
mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra ’l mento e ’l principio del casso,

ché da le reni era tornato ’l volto,
e in dietro venir li convenia,
perché ’l veder dinanzi era lor tolto.

Forse per forza già di parlasia
si travolse così alcun del tutto;
ma io nol vidi, né credo che sia.

Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
di tua lezione, or pensa per te stesso
com’ io potea tener lo viso asciutto,

quando la nostra imagine di presso
vidi sì torta, che ’l pianto de li occhi
le natiche bagnava per lo fesso.

Certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi
del duro scoglio, sì che la mia scorta
mi disse: «Ancor se’ tu de li altri sciocchi?

Qui vive la pietà quand’ è ben morta;
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta?

Drizza la testa, drizza, e vedi a cui
s’aperse a li occhi d’i Teban la terra;
per ch’ei gridavan tutti: “Dove rui,

Anfïarao? perché lasci la guerra?”.
E non restò di ruinare a valle
fino a Minòs che ciascheduno afferra.

Mira c’ha fatto petto de le spalle;
perché volle veder troppo davante,
di retro guarda e fa retroso calle.

Vedi Tiresia, che mutò sembiante
quando di maschio femmina divenne,
cangiandosi le membra tutte quante;

e prima, poi, ribatter li convenne
li duo serpenti avvolti, con la verga,
che rïavesse le maschili penne.

Aronta è quel ch’al ventre li s’atterga,
che ne’ monti di Luni, dove ronca
lo Carrarese che di sotto alberga,

ebbe tra ’ bianchi marmi la spelonca
per sua dimora; onde a guardar le stelle
e ’l mar non li era la veduta tronca.

E quella che ricuopre le mammelle,
che tu non vedi, con le trecce sciolte,
e ha di là ogne pilosa pelle,

Manto fu, che cercò per terre molte;
poscia si puose là dove nacqu’ io;
onde un poco mi piace che m’ascolte.

Poscia che ’l padre suo di vita uscìo
e venne serva la città di Baco,
questa gran tempo per lo mondo gio.

Suso in Italia bella giace un laco,
a piè de l’Alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, c’ha nome Benaco.

Per mille fonti, credo, e più si bagna
tra Garda e Val Camonica e Pennino
de l’acqua che nel detto laco stagna.

Loco è nel mezzo là dove ’l trentino
pastore e quel di Brescia e ’l veronese
segnar poria, s’e’ fesse quel cammino.

Siede Peschiera, bello e forte arnese
da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
ove la riva ’ntorno più discese.

Ivi convien che tutto quanto caschi
ciò che ’n grembo a Benaco star non può,
e fassi fiume giù per verdi paschi.

Tosto che l’acqua a correr mette co,
non più Benaco, ma Mencio si chiama
fino a Governol, dove cade in Po.

Non molto ha corso, ch’el trova una lama,
ne la qual si distende e la ’mpaluda;
e suol di state talor essere grama.

Quindi passando la vergine cruda
vide terra, nel mezzo del pantano,
sanza coltura e d’abitanti nuda.

Lì, per fuggire ogne consorzio umano,
ristette con suoi servi a far sue arti,
e visse, e vi lasciò suo corpo vano.

Li uomini poi che ’ntorno erano sparti
s’accolsero a quel loco, ch’era forte
per lo pantan ch’avea da tutte parti.

Fer la città sovra quell’ ossa morte;
e per colei che ’l loco prima elesse,
Mantüa l’appellar sanz’ altra sorte.

Già fuor le genti sue dentro più spesse,
prima che la mattia da Casalodi
da Pinamonte inganno ricevesse.

Però t’assenno che, se tu mai odi
originar la mia terra altrimenti,
la verità nulla menzogna frodi».

E io: «Maestro, i tuoi ragionamenti
mi son sì certi e prendon sì mia fede,
che li altri mi sarien carboni spenti.

Ma dimmi, de la gente che procede,
se tu ne vedi alcun degno di nota;
ché solo a ciò la mia mente rifiede».

Allor mi disse: «Quel che da la gota
porge la barba in su le spalle brune,
fu—quando Grecia fu di maschi vòta,

sì ch’a pena rimaser per le cune—
augure, e diede ’l punto con Calcanta
in Aulide a tagliar la prima fune.

Euripilo ebbe nome, e così ’l canta
l’alta mia tragedìa in alcun loco:
ben lo sai tu che la sai tutta quanta.

Quell’ altro che ne’ fianchi è così poco,
Michele Scotto fu, che veramente
de le magiche frode seppe ’l gioco.

Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,
ch’avere inteso al cuoio e a lo spago
ora vorrebbe, ma tardi si pente.

Vedi le triste che lasciaron l’ago,
la spuola e ’l fuso, e fecersi ’ndivine;
fecer malie con erbe e con imago.

Ma vienne omai, ché già tiene ’l confine
d’amendue li emisperi e tocca l’onda
sotto Sobilia Caino e le spine;

e già iernotte fu la luna tonda:
ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda».

Sì mi parlava, e andavamo introcque.



Inferno · Canto XXI


Così di ponte in ponte, altro parlando
che la mia comedìa cantar non cura,
venimmo; e tenavamo ’l colmo, quando

restammo per veder l’altra fessura
di Malebolge e li altri pianti vani;
e vidila mirabilmente oscura.

Quale ne l’arzanà de’ Viniziani
bolle l’inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,

ché navicar non ponno—in quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più vïaggi fece;

chi ribatte da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon rintoppa—:

tal, non per foco ma per divin’ arte,
bollia là giuso una pegola spessa,
che ’nviscava la ripa d’ogne parte.

I’ vedea lei, ma non vedëa in essa
mai che le bolle che ’l bollor levava,
e gonfiar tutta, e riseder compressa.

Mentr’ io là giù fisamente mirava,
lo duca mio, dicendo «Guarda, guarda!»,
mi trasse a sé del loco dov’ io stava.

Allor mi volsi come l’uom cui tarda
di veder quel che li convien fuggire
e cui paura sùbita sgagliarda,

che, per veder, non indugia ’l partire:
e vidi dietro a noi un diavol nero
correndo su per lo scoglio venire.

Ahi quant’ elli era ne l’aspetto fero!
e quanto mi parea ne l’atto acerbo,
con l’ali aperte e sovra i piè leggero!

L’omero suo, ch’era aguto e superbo,
carcava un peccator con ambo l’anche,
e quei tenea de’ piè ghermito ’l nerbo.

Del nostro ponte disse: «O Malebranche,
ecco un de li anzïan di Santa Zita!
Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche

a quella terra, che n’è ben fornita:
ogn’ uom v’è barattier, fuor che Bonturo;
del no, per li denar, vi si fa ita».

Là giù ’l buttò, e per lo scoglio duro
si volse; e mai non fu mastino sciolto
con tanta fretta a seguitar lo furo.

Quel s’attuffò, e tornò sù convolto;
ma i demon che del ponte avean coperchio,
gridar: «Qui non ha loco il Santo Volto!

qui si nuota altrimenti che nel Serchio!
Però, se tu non vuo’ di nostri graffi,
non far sopra la pegola soverchio».

Poi l’addentar con più di cento raffi,
disser: «Coverto convien che qui balli,
sì che, se puoi, nascosamente accaffi».

Non altrimenti i cuoci a’ lor vassalli
fanno attuffare in mezzo la caldaia
la carne con li uncin, perché non galli.

Lo buon maestro «Acciò che non si paia
che tu ci sia», mi disse, «giù t’acquatta
dopo uno scheggio, ch’alcun schermo t’aia;

e per nulla offension che mi sia fatta,
non temer tu, ch’i’ ho le cose conte,
perch’ altra volta fui a tal baratta».

Poscia passò di là dal co del ponte;
e com’ el giunse in su la ripa sesta,
mestier li fu d’aver sicura fronte.

Con quel furore e con quella tempesta
ch’escono i cani a dosso al poverello
che di sùbito chiede ove s’arresta,

usciron quei di sotto al ponticello,
e volser contra lui tutt’ i runcigli;
ma el gridò: «Nessun di voi sia fello!

Innanzi che l’uncin vostro mi pigli,
traggasi avante l’un di voi che m’oda,
e poi d’arruncigliarmi si consigli».

Tutti gridaron: «Vada Malacoda!»;
per ch’un si mosse—e li altri stetter fermi—
e venne a lui dicendo: «Che li approda?».

«Credi tu, Malacoda, qui vedermi
esser venuto», disse ’l mio maestro,
«sicuro già da tutti vostri schermi,

sanza voler divino e fato destro?
Lascian’ andar, ché nel cielo è voluto
ch’i’ mostri altrui questo cammin silvestro».

Allor li fu l’orgoglio sì caduto,
ch’e’ si lasciò cascar l’uncino a’ piedi,
e disse a li altri: «Omai non sia feruto».

E ’l duca mio a me: «O tu che siedi
tra li scheggion del ponte quatto quatto,
sicuramente omai a me ti riedi».

Per ch’io mi mossi e a lui venni ratto;
e i diavoli si fecer tutti avanti,
sì ch’io temetti ch’ei tenesser patto;

così vid’ ïo già temer li fanti
ch’uscivan patteggiati di Caprona,
veggendo sé tra nemici cotanti.

I’ m’accostai con tutta la persona
lungo ’l mio duca, e non torceva li occhi
da la sembianza lor ch’era non buona.

Ei chinavan li raffi e «Vuo’ che ’l tocchi»,
diceva l’un con l’altro, «in sul groppone?».
E rispondien: «Sì, fa che gliel’ accocchi».

Ma quel demonio che tenea sermone
col duca mio, si volse tutto presto
e disse: «Posa, posa, Scarmiglione!».

Poi disse a noi: «Più oltre andar per questo
iscoglio non si può, però che giace
tutto spezzato al fondo l’arco sesto.

E se l’andare avante pur vi piace,
andatevene su per questa grotta;
presso è un altro scoglio che via face.

Ier, più oltre cinqu’ ore che quest’ otta,
mille dugento con sessanta sei
anni compié che qui la via fu rotta.

Io mando verso là di questi miei
a riguardar s’alcun se ne sciorina;
gite con lor, che non saranno rei».

«Tra’ti avante, Alichino, e Calcabrina»,
cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo;
e Barbariccia guidi la decina.

Libicocco vegn’ oltre e Draghignazzo,
Cirïatto sannuto e Graffiacane
e Farfarello e Rubicante pazzo.

Cercate ’ntorno le boglienti pane;
costor sian salvi infino a l’altro scheggio
che tutto intero va sovra le tane».

«Omè, maestro, che è quel ch’i’ veggio?»,
diss’ io, «deh, sanza scorta andianci soli,
se tu sa’ ir; ch’i’ per me non la cheggio.

Se tu se’ sì accorto come suoli,
non vedi tu ch’e’ digrignan li denti
e con le ciglia ne minaccian duoli?».

Ed elli a me: «Non vo’ che tu paventi;
lasciali digrignar pur a lor senno,
ch’e’ fanno ciò per li lessi dolenti».

Per l’argine sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti, verso lor duca, per cenno;

ed elli avea del cul fatto trombetta.



Inferno · Canto XXII


Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo;

corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra;

quando con trombe, e quando con campane,
con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane;

né già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
né nave a segno di terra o di stella.

Noi andavam con li diece demoni.
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
coi santi, e in taverna coi ghiottoni.

Pur a la pegola era la mia ’ntesa,
per veder de la bolgia ogne contegno
e de la gente ch’entro v’era incesa.

Come i dalfini, quando fanno segno
a’ marinar con l’arco de la schiena
che s’argomentin di campar lor legno,

talor così, ad alleggiar la pena,
mostrav’ alcun de’ peccatori ’l dosso
e nascondea in men che non balena.

E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso
stanno i ranocchi pur col muso fuori,
sì che celano i piedi e l’altro grosso,

sì stavan d’ogne parte i peccatori;
ma come s’appressava Barbariccia,
così si ritraén sotto i bollori.

I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia,
uno aspettar così, com’ elli ’ncontra
ch’una rana rimane e l’altra spiccia;

e Graffiacan, che li era più di contra,
li arruncigliò le ’mpegolate chiome
e trassel sù, che mi parve una lontra.

I’ sapea già di tutti quanti ’l nome,
sì li notai quando fuorono eletti,
e poi ch’e’ si chiamaro, attesi come.

«O Rubicante, fa che tu li metti
li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!»,
gridavan tutti insieme i maladetti.

E io: «Maestro mio, fa, se tu puoi,
che tu sappi chi è lo sciagurato
venuto a man de li avversari suoi».

Lo duca mio li s’accostò allato;
domandollo ond’ ei fosse, e quei rispuose:
«I’ fui del regno di Navarra nato.

Mia madre a servo d’un segnor mi puose,
che m’avea generato d’un ribaldo,
distruggitor di sé e di sue cose.

Poi fui famiglia del buon re Tebaldo;
quivi mi misi a far baratteria,
di ch’io rendo ragione in questo caldo».

E Cirïatto, a cui di bocca uscia
d’ogne parte una sanna come a porco,
li fé sentir come l’una sdruscia.

Tra male gatte era venuto ’l sorco;
ma Barbariccia il chiuse con le braccia
e disse: «State in là, mentr’ io lo ’nforco».

E al maestro mio volse la faccia;
«Domanda», disse, «ancor, se più disii
saper da lui, prima ch’altri ’l disfaccia».

Lo duca dunque: «Or dì: de li altri rii


 


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