Divina Commedia di Dante
by
Dante Alighieri

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nettare è questo di che ciascun dice».

Io mi rivolsi ’n dietro allora tutto
a’ miei poeti, e vidi che con riso
udito avëan l’ultimo costrutto;

poi a la bella donna torna’ il viso.



Purgatorio · Canto XXIX


Cantando come donna innamorata,
continüò col fin di sue parole:
‘Beati quorum tecta sunt peccata!’.

E come ninfe che si givan sole
per le salvatiche ombre, disïando
qual di veder, qual di fuggir lo sole,

allor si mosse contra ’l fiume, andando
su per la riva; e io pari di lei,
picciol passo con picciol seguitando.

Non eran cento tra ’ suoi passi e ’ miei,
quando le ripe igualmente dier volta,
per modo ch’a levante mi rendei.

Né ancor fu così nostra via molta,
quando la donna tutta a me si torse,
dicendo: «Frate mio, guarda e ascolta».

Ed ecco un lustro sùbito trascorse
da tutte parti per la gran foresta,
tal che di balenar mi mise in forse.

Ma perché ’l balenar, come vien, resta,
e quel, durando, più e più splendeva,
nel mio pensier dicea: ‘Che cosa è questa?’.

E una melodia dolce correva
per l’aere luminoso; onde buon zelo
mi fé riprender l’ardimento d’Eva,

che là dove ubidia la terra e ’l cielo,
femmina, sola e pur testé formata,
non sofferse di star sotto alcun velo;

sotto ’l qual se divota fosse stata,
avrei quelle ineffabili delizie
sentite prima e più lunga fïata.

Mentr’ io m’andava tra tante primizie
de l’etterno piacer tutto sospeso,
e disïoso ancora a più letizie,

dinanzi a noi, tal quale un foco acceso,
ci si fé l’aere sotto i verdi rami;
e ’l dolce suon per canti era già inteso.

O sacrosante Vergini, se fami,
freddi o vigilie mai per voi soffersi,
cagion mi sprona ch’io mercé vi chiami.

Or convien che Elicona per me versi,
e Uranìe m’aiuti col suo coro
forti cose a pensar mettere in versi.

Poco più oltre, sette alberi d’oro
falsava nel parere il lungo tratto
del mezzo ch’era ancor tra noi e loro;

ma quand’ i’ fui sì presso di lor fatto,
che l’obietto comun, che ’l senso inganna,
non perdea per distanza alcun suo atto,

la virtù ch’a ragion discorso ammanna,
sì com’ elli eran candelabri apprese,
e ne le voci del cantare ‘Osanna’.

Di sopra fiammeggiava il bello arnese
più chiaro assai che luna per sereno
di mezza notte nel suo mezzo mese.

Io mi rivolsi d’ammirazion pieno
al buon Virgilio, ed esso mi rispuose
con vista carca di stupor non meno.

Indi rendei l’aspetto a l’alte cose
che si movieno incontr’ a noi sì tardi,
che foran vinte da novelle spose.

La donna mi sgridò: «Perché pur ardi
sì ne l’affetto de le vive luci,
e ciò che vien di retro a lor non guardi?».

Genti vid’ io allor, come a lor duci,
venire appresso, vestite di bianco;
e tal candor di qua già mai non fuci.

L’acqua imprendëa dal sinistro fianco,
e rendea me la mia sinistra costa,
s’io riguardava in lei, come specchio anco.

Quand’ io da la mia riva ebbi tal posta,
che solo il fiume mi facea distante,
per veder meglio ai passi diedi sosta,

e vidi le fiammelle andar davante,
lasciando dietro a sé l’aere dipinto,
e di tratti pennelli avean sembiante;

sì che lì sopra rimanea distinto
di sette liste, tutte in quei colori
onde fa l’arco il Sole e Delia il cinto.

Questi ostendali in dietro eran maggiori
che la mia vista; e, quanto a mio avviso,
diece passi distavan quei di fori.

Sotto così bel ciel com’ io diviso,
ventiquattro seniori, a due a due,
coronati venien di fiordaliso.

Tutti cantavan: «Benedicta tue
ne le figlie d’Adamo, e benedette
sieno in etterno le bellezze tue!».

Poscia che i fiori e l’altre fresche erbette
a rimpetto di me da l’altra sponda
libere fuor da quelle genti elette,

sì come luce luce in ciel seconda,
vennero appresso lor quattro animali,
coronati ciascun di verde fronda.

Ognuno era pennuto di sei ali;
le penne piene d’occhi; e li occhi d’Argo,
se fosser vivi, sarebber cotali.

A descriver lor forme più non spargo
rime, lettor; ch’altra spesa mi strigne,
tanto ch’a questa non posso esser largo;

ma leggi Ezechïel, che li dipigne
come li vide da la fredda parte
venir con vento e con nube e con igne;

e quali i troverai ne le sue carte,
tali eran quivi, salvo ch’a le penne
Giovanni è meco e da lui si diparte.

Lo spazio dentro a lor quattro contenne
un carro, in su due rote, trïunfale,
ch’al collo d’un grifon tirato venne.

Esso tendeva in sù l’una e l’altra ale
tra la mezzana e le tre e tre liste,
sì ch’a nulla, fendendo, facea male.

Tanto salivan che non eran viste;
le membra d’oro avea quant’ era uccello,
e bianche l’altre, di vermiglio miste.

Non che Roma di carro così bello
rallegrasse Affricano, o vero Augusto,
ma quel del Sol saria pover con ello;

quel del Sol che, svïando, fu combusto
per l’orazion de la Terra devota,
quando fu Giove arcanamente giusto.

Tre donne in giro da la destra rota
venian danzando; l’una tanto rossa
ch’a pena fora dentro al foco nota;

l’altr’ era come se le carni e l’ossa
fossero state di smeraldo fatte;
la terza parea neve testé mossa;

e or parëan da la bianca tratte,
or da la rossa; e dal canto di questa
l’altre toglien l’andare e tarde e ratte.

Da la sinistra quattro facean festa,
in porpore vestite, dietro al modo
d’una di lor ch’avea tre occhi in testa.

Appresso tutto il pertrattato nodo
vidi due vecchi in abito dispari,
ma pari in atto e onesto e sodo.

L’un si mostrava alcun de’ famigliari
di quel sommo Ipocràte che natura
a li animali fé ch’ell’ ha più cari;

mostrava l’altro la contraria cura
con una spada lucida e aguta,
tal che di qua dal rio mi fé paura.

Poi vidi quattro in umile paruta;
e di retro da tutti un vecchio solo
venir, dormendo, con la faccia arguta.

E questi sette col primaio stuolo
erano abitüati, ma di gigli
dintorno al capo non facëan brolo,

anzi di rose e d’altri fior vermigli;
giurato avria poco lontano aspetto
che tutti ardesser di sopra da’ cigli.

E quando il carro a me fu a rimpetto,
un tuon s’udì, e quelle genti degne
parvero aver l’andar più interdetto,

fermandosi ivi con le prime insegne.



Purgatorio · Canto XXX


Quando il settentrïon del primo cielo,
che né occaso mai seppe né orto
né d’altra nebbia che di colpa velo,

e che faceva lì ciascun accorto
di suo dover, come ’l più basso face
qual temon gira per venire a porto,

fermo s’affisse: la gente verace,
venuta prima tra ’l grifone ed esso,
al carro volse sé come a sua pace;

e un di loro, quasi da ciel messo,
‘Veni, sponsa, de Libano’ cantando
gridò tre volte, e tutti li altri appresso.

Quali i beati al novissimo bando
surgeran presti ognun di sua caverna,
la revestita voce alleluiando,

cotali in su la divina basterna
si levar cento, ad vocem tanti senis,
ministri e messaggier di vita etterna.

Tutti dicean: ‘Benedictus qui venis!’,
e fior gittando e di sopra e dintorno,
‘Manibus, oh, date lilïa plenis!’.

Io vidi già nel cominciar del giorno
la parte orïental tutta rosata,
e l’altro ciel di bel sereno addorno;

e la faccia del sol nascere ombrata,
sì che per temperanza di vapori
l’occhio la sostenea lunga fïata:

così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori,

sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.

E lo spirito mio, che già cotanto
tempo era stato ch’a la sua presenza
non era di stupor, tremando, affranto,

sanza de li occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d’antico amor sentì la gran potenza.

Tosto che ne la vista mi percosse
l’alta virtù che già m’avea trafitto
prima ch’io fuor di püerizia fosse,

volsimi a la sinistra col respitto
col quale il fantolin corre a la mamma
quando ha paura o quando elli è afflitto,

per dicere a Virgilio: ‘Men che dramma
di sangue m’è rimaso che non tremi:
conosco i segni de l’antica fiamma’.

Ma Virgilio n’avea lasciati scemi
di sé, Virgilio dolcissimo patre,
Virgilio a cui per mia salute die’mi;

né quantunque perdeo l’antica matre,
valse a le guance nette di rugiada,
che, lagrimando, non tornasser atre.

«Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non piangere ancora;
ché pianger ti conven per altra spada».

Quasi ammiraglio che in poppa e in prora
viene a veder la gente che ministra
per li altri legni, e a ben far l’incora;

in su la sponda del carro sinistra,
quando mi volsi al suon del nome mio,
che di necessità qui si registra,

vidi la donna che pria m’appario
velata sotto l’angelica festa,
drizzar li occhi ver’ me di qua dal rio.

Tutto che ’l vel che le scendea di testa,
cerchiato de le fronde di Minerva,
non la lasciasse parer manifesta,

regalmente ne l’atto ancor proterva
continüò come colui che dice
e ’l più caldo parlar dietro reserva:

«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei tu che qui è l’uom felice?».

Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba,
tanta vergogna mi gravò la fronte.

Così la madre al figlio par superba,
com’ ella parve a me; perché d’amaro
sente il sapor de la pietade acerba.

Ella si tacque; e li angeli cantaro
di sùbito ‘In te, Domine, speravi’;
ma oltre ‘pedes meos’ non passaro.

Sì come neve tra le vive travi
per lo dosso d’Italia si congela,
soffiata e stretta da li venti schiavi,

poi, liquefatta, in sé stessa trapela,
pur che la terra che perde ombra spiri,
sì che par foco fonder la candela;

così fui sanza lagrime e sospiri
anzi ’l cantar di quei che notan sempre
dietro a le note de li etterni giri;

ma poi che ’ntesi ne le dolci tempre
lor compatire a me, par che se detto
avesser: ‘Donna, perché sì lo stempre?’,

lo gel che m’era intorno al cor ristretto,
spirito e acqua fessi, e con angoscia
de la bocca e de li occhi uscì del petto.

Ella, pur ferma in su la detta coscia
del carro stando, a le sustanze pie
volse le sue parole così poscia:

«Voi vigilate ne l’etterno die,
sì che notte né sonno a voi non fura
passo che faccia il secol per sue vie;

onde la mia risposta è con più cura
che m’intenda colui che di là piagne,
perché sia colpa e duol d’una misura.

Non pur per ovra de le rote magne,
che drizzan ciascun seme ad alcun fine
secondo che le stelle son compagne,

ma per larghezza di grazie divine,
che sì alti vapori hanno a lor piova,
che nostre viste là non van vicine,

questi fu tal ne la sua vita nova
virtüalmente, ch’ogne abito destro
fatto averebbe in lui mirabil prova.

Ma tanto più maligno e più silvestro
si fa ’l terren col mal seme e non cólto,
quant’ elli ha più di buon vigor terrestro.

Alcun tempo il sostenni col mio volto:
mostrando li occhi giovanetti a lui,
meco il menava in dritta parte vòlto.

Sì tosto come in su la soglia fui
di mia seconda etade e mutai vita,
questi si tolse a me, e diessi altrui.

Quando di carne a spirto era salita,
e bellezza e virtù cresciuta m’era,
fu’ io a lui men cara e men gradita;

e volse i passi suoi per via non vera,
imagini di ben seguendo false,
che nulla promession rendono intera.

Né l’impetrare ispirazion mi valse,
con le quali e in sogno e altrimenti
lo rivocai: sì poco a lui ne calse!

Tanto giù cadde, che tutti argomenti
a la salute sua eran già corti,
fuor che mostrarli le perdute genti.

Per questo visitai l’uscio d’i morti,
e a colui che l’ha qua sù condotto,
li prieghi miei, piangendo, furon porti.

Alto fato di Dio sarebbe rotto,
se Letè si passasse e tal vivanda
fosse gustata sanza alcuno scotto

di pentimento che lagrime spanda».



Purgatorio · Canto XXXI


«O tu che se’ di là dal fiume sacro»,
volgendo suo parlare a me per punta,
che pur per taglio m’era paruto acro,

ricominciò, seguendo sanza cunta,
«dì, dì se questo è vero: a tanta accusa
tua confession conviene esser congiunta».

Era la mia virtù tanto confusa,
che la voce si mosse, e pria si spense
che da li organi suoi fosse dischiusa.

Poco sofferse; poi disse: «Che pense?
Rispondi a me; ché le memorie triste
in te non sono ancor da l’acqua offense».

Confusione e paura insieme miste
mi pinsero un tal «sì» fuor de la bocca,
al quale intender fuor mestier le viste.

Come balestro frange, quando scocca
da troppa tesa, la sua corda e l’arco,
e con men foga l’asta il segno tocca,

sì scoppia’ io sottesso grave carco,
fuori sgorgando lagrime e sospiri,
e la voce allentò per lo suo varco.

Ond’ ella a me: «Per entro i mie’ disiri,
che ti menavano ad amar lo bene
di là dal qual non è a che s’aspiri,

quai fossi attraversati o quai catene
trovasti, per che del passare innanzi
dovessiti così spogliar la spene?

E quali agevolezze o quali avanzi
ne la fronte de li altri si mostraro,
per che dovessi lor passeggiare anzi?».

Dopo la tratta d’un sospiro amaro,
a pena ebbi la voce che rispuose,
e le labbra a fatica la formaro.

Piangendo dissi: «Le presenti cose
col falso lor piacer volser miei passi,
tosto che ’l vostro viso si nascose».

Ed ella: «Se tacessi o se negassi
ciò che confessi, non fora men nota
la colpa tua: da tal giudice sassi!

Ma quando scoppia de la propria gota
l’accusa del peccato, in nostra corte
rivolge sé contra ’l taglio la rota.

Tuttavia, perché mo vergogna porte
del tuo errore, e perché altra volta,
udendo le serene, sie più forte,

pon giù il seme del piangere e ascolta:
sì udirai come in contraria parte
mover dovieti mia carne sepolta.

Mai non t’appresentò natura o arte
piacer, quanto le belle membra in ch’io
rinchiusa fui, e che so’ ’n terra sparte;

e se ’l sommo piacer sì ti fallio
per la mia morte, qual cosa mortale
dovea poi trarre te nel suo disio?

Ben ti dovevi, per lo primo strale
de le cose fallaci, levar suso
di retro a me che non era più tale.

Non ti dovea gravar le penne in giuso,
ad aspettar più colpo, o pargoletta
o altra novità con sì breve uso.

Novo augelletto due o tre aspetta;
ma dinanzi da li occhi d’i pennuti
rete si spiega indarno o si saetta».

Quali fanciulli, vergognando, muti
con li occhi a terra stannosi, ascoltando
e sé riconoscendo e ripentuti,

tal mi stav’ io; ed ella disse: «Quando
per udir se’ dolente, alza la barba,
e prenderai più doglia riguardando».

Con men di resistenza si dibarba
robusto cerro, o vero al nostral vento
o vero a quel de la terra di Iarba,

ch’io non levai al suo comando il mento;
e quando per la barba il viso chiese,
ben conobbi il velen de l’argomento.

E come la mia faccia si distese,
posarsi quelle prime creature
da loro aspersïon l’occhio comprese;

e le mie luci, ancor poco sicure,
vider Beatrice volta in su la fiera
ch’è sola una persona in due nature.

Sotto ’l suo velo e oltre la rivera
vincer pariemi più sé stessa antica,
vincer che l’altre qui, quand’ ella c’era.

Di penter sì mi punse ivi l’ortica,
che di tutte altre cose qual mi torse
più nel suo amor, più mi si fé nemica.

Tanta riconoscenza il cor mi morse,
ch’io caddi vinto; e quale allora femmi,
salsi colei che la cagion mi porse.

Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi,
la donna ch’io avea trovata sola
sopra me vidi, e dicea: «Tiemmi, tiemmi!».

Tratto m’avea nel fiume infin la gola,
e tirandosi me dietro sen giva
sovresso l’acqua lieve come scola.

Quando fui presso a la beata riva,
‘Asperges me’ sì dolcemente udissi,
che nol so rimembrar, non ch’io lo scriva.

La bella donna ne le braccia aprissi;
abbracciommi la testa e mi sommerse
ove convenne ch’io l’acqua inghiottissi.

Indi mi tolse, e bagnato m’offerse
dentro a la danza de le quattro belle;
e ciascuna del braccio mi coperse.

«Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle;
pria che Beatrice discendesse al mondo,
fummo ordinate a lei per sue ancelle.

Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo
lume ch’è dentro aguzzeranno i tuoi
le tre di là, che miran più profondo».

Così cantando cominciaro; e poi
al petto del grifon seco menarmi,
ove Beatrice stava volta a noi.

Disser: «Fa che le viste non risparmi;
posto t’avem dinanzi a li smeraldi
ond’ Amor già ti trasse le sue armi».

Mille disiri più che fiamma caldi
strinsermi li occhi a li occhi rilucenti,
che pur sopra ’l grifone stavan saldi.

Come in lo specchio il sol, non altrimenti
la doppia fiera dentro vi raggiava,
or con altri, or con altri reggimenti.

Pensa, lettor, s’io mi maravigliava,
quando vedea la cosa in sé star queta,
e ne l’idolo suo si trasmutava.

Mentre che piena di stupore e lieta
l’anima mia gustava di quel cibo
che, saziando di sé, di sé asseta,

sé dimostrando di più alto tribo
ne li atti, l’altre tre si fero avanti,
danzando al loro angelico caribo.

«Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi»,
era la sua canzone, «al tuo fedele
che, per vederti, ha mossi passi tanti!

Per grazia fa noi grazia che disvele
a lui la bocca tua, sì che discerna
la seconda bellezza che tu cele».

O isplendor di viva luce etterna,
chi palido si fece sotto l’ombra
sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,

che non paresse aver la mente ingombra,
tentando a render te qual tu paresti
là dove armonizzando il ciel t’adombra,

quando ne l’aere aperto ti solvesti?



Purgatorio · Canto XXXII


Tant’ eran li occhi miei fissi e attenti
a disbramarsi la decenne sete,
che li altri sensi m’eran tutti spenti.

Ed essi quinci e quindi avien parete
di non caler—così lo santo riso
a sé traéli con l’antica rete!—;

quando per forza mi fu vòlto il viso
ver’ la sinistra mia da quelle dee,
perch’ io udi’ da loro un «Troppo fiso!»;

e la disposizion ch’a veder èe
ne li occhi pur testé dal sol percossi,
sanza la vista alquanto esser mi fée.

Ma poi ch’al poco il viso riformossi
(e dico ‘al poco’ per rispetto al molto
sensibile onde a forza mi rimossi),

vidi ’n sul braccio destro esser rivolto
lo glorïoso essercito, e tornarsi
col sole e con le sette fiamme al volto.

Come sotto li scudi per salvarsi
volgesi schiera, e sé gira col segno,
prima che possa tutta in sé mutarsi;

quella milizia del celeste regno
che procedeva, tutta trapassonne
pria che piegasse il carro il primo legno.

Indi a le rote si tornar le donne,
e ’l grifon mosse il benedetto carco
sì, che però nulla penna crollonne.

La bella donna che mi trasse al varco
e Stazio e io seguitavam la rota
che fé l’orbita sua con minore arco.

Sì passeggiando l’alta selva vòta,
colpa di quella ch’al serpente crese,
temprava i passi un’angelica nota.

Forse in tre voli tanto spazio prese
disfrenata saetta, quanto eramo
rimossi, quando Bëatrice scese.

Io senti’ mormorare a tutti «Adamo»;
poi cerchiaro una pianta dispogliata
di foglie e d’altra fronda in ciascun ramo.

La coma sua, che tanto si dilata
più quanto più è sù, fora da l’Indi
ne’ boschi lor per altezza ammirata.

«Beato se’, grifon, che non discindi
col becco d’esto legno dolce al gusto,
poscia che mal si torce il ventre quindi».

Così dintorno a l’albero robusto
gridaron li altri; e l’animal binato:
«Sì si conserva il seme d’ogne giusto».

E vòlto al temo ch’elli avea tirato,
trasselo al piè de la vedova frasca,
e quel di lei a lei lasciò legato.

Come le nostre piante, quando casca
giù la gran luce mischiata con quella
che raggia dietro a la celeste lasca,

turgide fansi, e poi si rinovella
di suo color ciascuna, pria che ’l sole
giunga li suoi corsier sotto altra stella;

men che di rose e più che di vïole
colore aprendo, s’innovò la pianta,
che prima avea le ramora sì sole.

Io non lo ’ntesi, né qui non si canta
l’inno che quella gente allor cantaro,
né la nota soffersi tutta quanta.

S’io potessi ritrar come assonnaro
li occhi spietati udendo di Siringa,
li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro;

come pintor che con essempro pinga,
disegnerei com’ io m’addormentai;
ma qual vuol sia che l’assonnar ben finga.

Però trascorro a quando mi svegliai,
e dico ch’un splendor mi squarciò ’l velo
del sonno, e un chiamar: «Surgi: che fai?».

Quali a veder de’ fioretti del melo
che del suo pome li angeli fa ghiotti
e perpetüe nozze fa nel cielo,

Pietro e Giovanni e Iacopo condotti
e vinti, ritornaro a la parola
da la qual furon maggior sonni rotti,

e videro scemata loro scuola
così di Moïsè come d’Elia,
e al maestro suo cangiata stola;

tal torna’ io, e vidi quella pia
sovra me starsi che conducitrice
fu de’ miei passi lungo ’l fiume pria.

E tutto in dubbio dissi: «Ov’ è Beatrice?».
Ond’ ella: «Vedi lei sotto la fronda
nova sedere in su la sua radice.

Vedi la compagnia che la circonda:
li altri dopo ’l grifon sen vanno suso
con più dolce canzone e più profonda».

E se più fu lo suo parlar diffuso,
non so, però che già ne li occhi m’era
quella ch’ad altro intender m’avea chiuso.

Sola sedeasi in su la terra vera,
come guardia lasciata lì del plaustro
che legar vidi a la biforme fera.

In cerchio le facevan di sé claustro
le sette ninfe, con quei lumi in mano
che son sicuri d’Aquilone e d’Austro.

«Qui sarai tu poco tempo silvano;
e sarai meco sanza fine cive
di quella Roma onde Cristo è romano.

Però, in pro del mondo che mal vive,
al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,
ritornato di là, fa che tu scrive».

Così Beatrice; e io, che tutto ai piedi
d’i suoi comandamenti era divoto,
la mente e li occhi ov’ ella volle diedi.

Non scese mai con sì veloce moto
foco di spessa nube, quando piove
da quel confine che più va remoto,

com’ io vidi calar l’uccel di Giove
per l’alber giù, rompendo de la scorza,
non che d’i fiori e de le foglie nove;

e ferì ’l carro di tutta sua forza;
ond’ el piegò come nave in fortuna,
vinta da l’onda, or da poggia, or da orza.

Poscia vidi avventarsi ne la cuna
del trïunfal veiculo una volpe
che d’ogne pasto buon parea digiuna;

ma, riprendendo lei di laide colpe,
la donna mia la volse in tanta futa
quanto sofferser l’ossa sanza polpe.

Poscia per indi ond’ era pria venuta,
l’aguglia vidi scender giù ne l’arca
del carro e lasciar lei di sé pennuta;

e qual esce di cuor che si rammarca,
tal voce uscì del cielo e cotal disse:
«O navicella mia, com’ mal se’ carca!».

Poi parve a me che la terra s’aprisse
tr’ambo le ruote, e vidi uscirne un drago
che per lo carro sù la coda fisse;

e come vespa che ritragge l’ago,
a sé traendo la coda maligna,
trasse del fondo, e gissen vago vago.

Quel che rimase, come da gramigna
vivace terra, da la piuma, offerta
forse con intenzion sana e benigna,

si ricoperse, e funne ricoperta
e l’una e l’altra rota e ’l temo, in tanto
che più tiene un sospir la bocca aperta.

Trasformato così ’l dificio santo
mise fuor teste per le parti sue,
tre sovra ’l temo e una in ciascun canto.

Le prime eran cornute come bue,
ma le quattro un sol corno avean per fronte:
simile mostro visto ancor non fue.

Sicura, quasi rocca in alto monte,
seder sovresso una puttana sciolta
m’apparve con le ciglia intorno pronte;

e come perché non li fosse tolta,
vidi di costa a lei dritto un gigante;
e basciavansi insieme alcuna volta.

Ma perché l’occhio cupido e vagante
a me rivolse, quel feroce drudo
la flagellò dal capo infin le piante;

poi, di sospetto pieno e d’ira crudo,
disciolse il mostro, e trassel per la selva,
tanto che sol di lei mi fece scudo

a la puttana e a la nova belva.



Purgatorio · Canto XXXIII


‘Deus, venerunt gentes’, alternando
or tre or quattro dolce salmodia,
le donne incominciaro, e lagrimando;

e Bëatrice, sospirosa e pia,
quelle ascoltava sì fatta, che poco
più a la croce si cambiò Maria.

Ma poi che l’altre vergini dier loco
a lei di dir, levata dritta in pè,
rispuose, colorata come foco:

‘Modicum, et non videbitis me;
et iterum, sorelle mie dilette,
modicum, et vos videbitis me’.

Poi le si mise innanzi tutte e sette,
e dopo sé, solo accennando, mosse
me e la donna e ’l savio che ristette.

Così sen giva; e non credo che fosse
lo decimo suo passo in terra posto,
quando con li occhi li occhi mi percosse;

e con tranquillo aspetto «Vien più tosto»,
mi disse, «tanto che, s’io parlo teco,
ad ascoltarmi tu sie ben disposto».

Sì com’ io fui, com’ io dovëa, seco,
dissemi: «Frate, perché non t’attenti
a domandarmi omai venendo meco?».

Come a color che troppo reverenti
dinanzi a suo maggior parlando sono,
che non traggon la voce viva ai denti,

avvenne a me, che sanza intero suono
incominciai: «Madonna, mia bisogna
voi conoscete, e ciò ch’ad essa è buono».

Ed ella a me: «Da tema e da vergogna
voglio che tu omai ti disviluppe,
sì che non parli più com’ om che sogna.

Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe,
fu e non è; ma chi n’ha colpa, creda
che vendetta di Dio non teme suppe.

Non sarà tutto tempo sanza reda
l’aguglia che lasciò le penne al carro,
per che divenne mostro e poscia preda;

ch’io veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure d’ogn’ intoppo e d’ogne sbarro,

nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque.

E forse che la mia narrazion buia,
qual Temi e Sfinge, men ti persuade,
perch’ a lor modo lo ’ntelletto attuia;

ma tosto fier li fatti le Naiade,
che solveranno questo enigma forte
sanza danno di pecore o di biade.

Tu nota; e sì come da me son porte,
così queste parole segna a’ vivi
del viver ch’è un correre a la morte.

E aggi a mente, quando tu le scrivi,
di non celar qual hai vista la pianta
ch’è or due volte dirubata quivi.

Qualunque ruba quella o quella schianta,
con bestemmia di fatto offende a Dio,
che solo a l’uso suo la creò santa.

Per morder quella, in pena e in disio
cinquemilia anni e più l’anima prima
bramò colui che ’l morso in sé punio.

Dorme lo ’ngegno tuo, se non estima
per singular cagione esser eccelsa
lei tanto e sì travolta ne la cima.

E se stati non fossero acqua d’Elsa
li pensier vani intorno a la tua mente,
e ’l piacer loro un Piramo a la gelsa,

per tante circostanze solamente
la giustizia di Dio, ne l’interdetto,
conosceresti a l’arbor moralmente.

Ma perch’ io veggio te ne lo ’ntelletto
fatto di pietra e, impetrato, tinto,
sì che t’abbaglia il lume del mio detto,

voglio anco, e se non scritto, almen dipinto,
che ’l te ne porti dentro a te per quello
che si reca il bordon di palma cinto».

E io: «Sì come cera da suggello,
che la figura impressa non trasmuta,
segnato è or da voi lo mio cervello.

Ma perché tanto sovra mia veduta
vostra parola disïata vola,
che più la perde quanto più s’aiuta?».

«Perché conoschi», disse, «quella scuola
c’hai seguitata, e veggi sua dottrina
come può seguitar la mia parola;

e veggi vostra via da la divina
distar cotanto, quanto si discorda
da terra il ciel che più alto festina».

Ond’ io rispuosi lei: «Non mi ricorda
ch’i’ stranïasse me già mai da voi,
né honne coscïenza che rimorda».

«E se tu ricordar non te ne puoi»,
sorridendo rispuose, «or ti rammenta
come bevesti di Letè ancoi;

e se dal fummo foco s’argomenta,
cotesta oblivïon chiaro conchiude
colpa ne la tua voglia altrove attenta.

Veramente oramai saranno nude
le mie parole, quanto converrassi
quelle scovrire a la tua vista rude».

E più corusco e con più lenti passi
teneva il sole il cerchio di merigge,
che qua e là, come li aspetti, fassi,

quando s’affisser, sì come s’affigge
chi va dinanzi a gente per iscorta
se trova novitate o sue vestigge,

le sette donne al fin d’un’ombra smorta,
qual sotto foglie verdi e rami nigri
sovra suoi freddi rivi l’alpe porta.

Dinanzi ad esse Ëufratès e Tigri
veder mi parve uscir d’una fontana,
e, quasi amici, dipartirsi pigri.

«O luce, o gloria de la gente umana,
che acqua è questa che qui si dispiega
da un principio e sé da sé lontana?».

Per cotal priego detto mi fu: «Priega
Matelda che ’l ti dica». E qui rispuose,
come fa chi da colpa si dislega,

la bella donna: «Questo e altre cose
dette li son per me; e son sicura
che l’acqua di Letè non gliel nascose».

E Bëatrice: «Forse maggior cura,
che spesse volte la memoria priva,
fatt’ ha la mente sua ne li occhi oscura.

Ma vedi Eünoè che là diriva:
menalo ad esso, e come tu se’ usa,
la tramortita sua virtù ravviva».

Come anima gentil, che non fa scusa,
ma fa sua voglia de la voglia altrui
tosto che è per segno fuor dischiusa;

così, poi che da essa preso fui,
la bella donna mossesi, e a Stazio
donnescamente disse: «Vien con lui».

S’io avessi, lettor, più lungo spazio
da scrivere, i’ pur cantere’ in parte
lo dolce ber che mai non m’avria sazio;

ma perché piene son tutte le carte
ordite a questa cantica seconda,
non mi lascia più ir lo fren de l’arte.

Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella fronda,

puro e disposto a salire a le stelle.





PARADISO




Paradiso · Canto I


La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.

Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;

perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.

Veramente quant’ io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto.

O buono Appollo, a l’ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l’amato alloro.

Infino a qui l’un giogo di Parnaso
assai mi fu; ma or con amendue
m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso.

Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsïa traesti
de la vagina de le membra sue.

O divina virtù, se mi ti presti
tanto che l’ombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti,

vedra’mi al piè del tuo diletto legno
venire, e coronarmi de le foglie
che la materia e tu mi farai degno.

Sì rade volte, padre, se ne coglie
per trïunfare o cesare o poeta,
colpa e vergogna de l’umane voglie,

che parturir letizia in su la lieta
delfica deïtà dovria la fronda
peneia, quando alcun di sé asseta.

Poca favilla gran fiamma seconda:
forse di retro a me con miglior voci
si pregherà perché Cirra risponda.

Surge ai mortali per diverse foci
la lucerna del mondo; ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci,

con miglior corso e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella.

Fatto avea di là mane e di qua sera
tal foce, e quasi tutto era là bianco
quello emisperio, e l’altra parte nera,

quando Beatrice in sul sinistro fianco
vidi rivolta e riguardar nel sole:
aguglia sì non li s’affisse unquanco.

E sì come secondo raggio suole
uscir del primo e risalire in suso,
pur come pelegrin che tornar vuole,

così de l’atto suo, per li occhi infuso
ne l’imagine mia, il mio si fece,
e fissi li occhi al sole oltre nostr’ uso.

Molto è licito là, che qui non lece
a le nostre virtù, mercé del loco
fatto per proprio de l’umana spece.

Io nol soffersi molto, né sì poco,
ch’io nol vedessi sfavillar dintorno,
com’ ferro che bogliente esce del foco;

e di sùbito parve giorno a giorno
essere aggiunto, come quei che puote
avesse il ciel d’un altro sole addorno.

Beatrice tutta ne l’etterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là sù rimote.

Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
che ’l fé consorto in mar de li altri dèi.

Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperïenza grazia serba.

S’i’ era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che ’l ciel governi,
tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti.

Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l’armonia che temperi e discerni,

parvemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.

La novità del suono e ’l grande lume
di lor cagion m’accesero un disio
mai non sentito di cotanto acume.

Ond’ ella, che vedea me sì com’ io,
a quïetarmi l’animo commosso,
pria ch’io a dimandar, la bocca aprio

e cominciò: «Tu stesso ti fai grosso
col falso imaginar, sì che non vedi
ciò che vedresti se l’avessi scosso.

Tu non se’ in terra, sì come tu credi;
ma folgore, fuggendo il proprio sito,
non corse come tu ch’ad esso riedi».

S’io fui del primo dubbio disvestito
per le sorrise parolette brevi,
dentro ad un nuovo più fu’ inretito

e dissi: «Già contento requïevi
di grande ammirazion; ma ora ammiro
com’ io trascenda questi corpi levi».

Ond’ ella, appresso d’un pïo sospiro,
li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante
che madre fa sovra figlio deliro,

e cominciò: «Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante.

Qui veggion l’alte creature l’orma
de l’etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.

Ne l’ordine ch’io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;

onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar de l’essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti.

Questi ne porta il foco inver’ la luna;
questi ne’ cor mortali è permotore;
questi la terra in sé stringe e aduna;

né pur le creature che son fore
d’intelligenza quest’ arco saetta,
ma quelle c’hanno intelletto e amore.

La provedenza, che cotanto assetta,
del suo lume fa ’l ciel sempre quïeto
nel qual si volge quel c’ha maggior fretta;

e ora lì, come a sito decreto,
cen porta la virtù di quella corda
che ciò che scocca drizza in segno lieto.

Vero è che, come forma non s’accorda
molte fïate a l’intenzion de l’arte,
perch’ a risponder la materia è sorda,

così da questo corso si diparte
talor la creatura, c’ha podere
di piegar, così pinta, in altra parte;

e sì come veder si può cadere
foco di nube, sì l’impeto primo
l’atterra torto da falso piacere.

Non dei più ammirar, se bene stimo,
lo tuo salir, se non come d’un rivo
se d’alto monte scende giuso ad imo.

Maraviglia sarebbe in te se, privo
d’impedimento, giù ti fossi assiso,
com’ a terra quïete in foco vivo».

Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso.



Paradiso · Canto II


O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,

tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
perdendo me, rimarreste smarriti.

L’acqua ch’io prendo già mai non si corse;
Minerva spira, e conducemi Appollo,
e nove Muse mi dimostran l’Orse.

Voialtri pochi che drizzaste il collo
per tempo al pan de li angeli, del quale
vivesi qui ma non sen vien satollo,

metter potete ben per l’alto sale
vostro navigio, servando mio solco
dinanzi a l’acqua che ritorna equale.

Que’ glorïosi che passaro al Colco
non s’ammiraron come voi farete,
quando Iasón vider fatto bifolco.

La concreata e perpetüa sete
del deïforme regno cen portava
veloci quasi come ’l ciel vedete.

Beatrice in suso, e io in lei guardava;
e forse in tanto in quanto un quadrel posa
e vola e da la noce si dischiava,

giunto mi vidi ove mirabil cosa
mi torse il viso a sé; e però quella
cui non potea mia cura essere ascosa,

volta ver’ me, sì lieta come bella,
«Drizza la mente in Dio grata», mi disse,
«che n’ha congiunti con la prima stella».

Parev’ a me che nube ne coprisse
lucida, spessa, solida e pulita,
quasi adamante che lo sol ferisse.

Per entro sé l’etterna margarita
ne ricevette, com’ acqua recepe
raggio di luce permanendo unita.

S’io era corpo, e qui non si concepe
com’ una dimensione altra patio,
ch’esser convien se corpo in corpo repe,

accender ne dovria più il disio
di veder quella essenza in che si vede
come nostra natura e Dio s’unio.

Lì si vedrà ciò che tenem per fede,
non dimostrato, ma fia per sé noto
a guisa del ver primo che l’uom crede.

Io rispuosi: «Madonna, sì devoto
com’ esser posso più, ringrazio lui
lo qual dal mortal mondo m’ha remoto.

Ma ditemi: che son li segni bui
di questo corpo, che là giuso in terra
fan di Cain favoleggiare altrui?».

Ella sorrise alquanto, e poi «S’elli erra
l’oppinïon», mi disse, «d’i mortali
dove chiave di senso non diserra,

certo non ti dovrien punger li strali
d’ammirazione omai, poi dietro ai sensi
vedi che la ragione ha corte l’ali.

Ma dimmi quel che tu da te ne pensi».
E io: «Ciò che n’appar qua sù diverso
credo che fanno i corpi rari e densi».

Ed ella: «Certo assai vedrai sommerso
nel falso il creder tuo, se bene ascolti
l’argomentar ch’io li farò avverso.

La spera ottava vi dimostra molti
lumi, li quali e nel quale e nel quanto
notar si posson di diversi volti.

Se raro e denso ciò facesser tanto,
una sola virtù sarebbe in tutti,
più e men distributa e altrettanto.

Virtù diverse esser convegnon frutti
di princìpi formali, e quei, for ch’uno,
seguiterieno a tua ragion distrutti.

Ancor, se raro fosse di quel bruno
cagion che tu dimandi, o d’oltre in parte
fora di sua materia sì digiuno

esto pianeto, o, sì come comparte
lo grasso e ’l magro un corpo, così questo
nel suo volume cangerebbe carte.

Se ’l primo fosse, fora manifesto
ne l’eclissi del sol, per trasparere
lo lume come in altro raro ingesto.

Questo non è: però è da vedere
de l’altro; e s’elli avvien ch’io l’altro cassi,
falsificato fia lo tuo parere.

S’elli è che questo raro non trapassi,
esser conviene un termine da onde
lo suo contrario più passar non lassi;

e indi l’altrui raggio si rifonde
così come color torna per vetro
lo qual di retro a sé piombo nasconde.

Or dirai tu ch’el si dimostra tetro
ivi lo raggio più che in altre parti,
per esser lì refratto più a retro.

Da questa instanza può deliberarti
esperïenza, se già mai la provi,
ch’esser suol fonte ai rivi di vostr’ arti.

Tre specchi prenderai; e i due rimovi
da te d’un modo, e l’altro, più rimosso,
tr’ambo li primi li occhi tuoi ritrovi.

Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso
ti stea un lume che i tre specchi accenda
e torni a te da tutti ripercosso.

Ben che nel quanto tanto non si stenda
la vista più lontana, lì vedrai
come convien ch’igualmente risplenda.

Or, come ai colpi de li caldi rai
de la neve riman nudo il suggetto
e dal colore e dal freddo primai,

così rimaso te ne l’intelletto
voglio informar di luce sì vivace,
che ti tremolerà nel suo aspetto.

Dentro dal ciel de la divina pace
si gira un corpo ne la cui virtute
l’esser di tutto suo contento giace.

Lo ciel seguente, c’ha tante vedute,
quell’ esser parte per diverse essenze,
da lui distratte e da lui contenute.

Li altri giron per varie differenze
le distinzion che dentro da sé hanno
dispongono a lor fini e lor semenze.

Questi organi del mondo così vanno,
come tu vedi omai, di grado in grado,
che di sù prendono e di sotto fanno.

Riguarda bene omai sì com’ io vado
per questo loco al vero che disiri,
sì che poi sappi sol tener lo guado.

Lo moto e la virtù d’i santi giri,
come dal fabbro l’arte del martello,
da’ beati motor convien che spiri;

e ’l ciel cui tanti lumi fanno bello,
de la mente profonda che lui volve
prende l’image e fassene suggello.

E come l’alma dentro a vostra polve
per differenti membra e conformate
a diverse potenze si risolve,

così l’intelligenza sua bontate
multiplicata per le stelle spiega,
girando sé sovra sua unitate.

Virtù diversa fa diversa lega
col prezïoso corpo ch’ella avviva,
nel qual, sì come vita in voi, si lega.

Per la natura lieta onde deriva,
la virtù mista per lo corpo luce
come letizia per pupilla viva.

Da essa vien ciò che da luce a luce
par differente, non da denso e raro;
essa è formal principio che produce,

conforme a sua bontà, lo turbo e ’l chiaro».



Paradiso · Canto III


Quel sol che pria d’amor mi scaldò ’l petto,
di bella verità m’avea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto;

e io, per confessar corretto e certo
me stesso, tanto quanto si convenne
leva’ il capo a proferer più erto;

ma visïone apparve che ritenne
a sé me tanto stretto, per vedersi,
che di mia confession non mi sovvenne.

Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi,

tornan d’i nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men forte a le nostre pupille;

tali vid’ io più facce a parlar pronte;
per ch’io dentro a l’error contrario corsi
a quel ch’accese amor tra l’omo e ’l fonte.

Sùbito sì com’ io di lor m’accorsi,
quelle stimando specchiati sembianti,
per veder di cui fosser, li occhi torsi;

e nulla vidi, e ritorsili avanti
dritti nel lume de la dolce guida,
che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.

«Non ti maravigliar perch’ io sorrida»,
mi disse, «appresso il tuo püeril coto,
poi sopra ’l vero ancor lo piè non fida,

ma te rivolve, come suole, a vòto:
vere sustanze son ciò che tu vedi,
qui rilegate per manco di voto.

Però parla con esse e odi e credi;
ché la verace luce che le appaga
da sé non lascia lor torcer li piedi».

E io a l’ombra che parea più vaga
di ragionar, drizza’mi, e cominciai,
quasi com’ uom cui troppa voglia smaga:

«O ben creato spirito, che a’ rai
di vita etterna la dolcezza senti
che, non gustata, non s’intende mai,

grazïoso mi fia se mi contenti
del nome tuo e de la vostra sorte».
Ond’ ella, pronta e con occhi ridenti:

«La nostra carità non serra porte
a giusta voglia, se non come quella
che vuol simile a sé tutta sua corte.

I’ fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l’esser più bella,

ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda,
che, posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda.

Li nostri affetti, che solo infiammati
son nel piacer de lo Spirito Santo,
letizian del suo ordine formati.

E questa sorte che par giù cotanto,
però n’è data, perché fuor negletti
li nostri voti, e vòti in alcun canto».

Ond’ io a lei: «Ne’ mirabili aspetti
vostri risplende non so che divino
che vi trasmuta da’ primi concetti:

però non fui a rimembrar festino;
ma or m’aiuta ciò che tu mi dici,
sì che raffigurar m’è più latino.

Ma dimmi: voi che siete qui felici,
disiderate voi più alto loco
per più vedere e per più farvi amici?».

Con quelle altr’ ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
ch’arder parea d’amor nel primo foco:

«Frate, la nostra volontà quïeta
virtù di carità, che fa volerne
sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta.

Se disïassimo esser più superne,
foran discordi li nostri disiri
dal voler di colui che qui ne cerne;

che vedrai non capere in questi giri,
s’essere in carità è qui necesse,
e se la sua natura ben rimiri.

Anzi è formale ad esto beato esse
tenersi dentro a la divina voglia,
per ch’una fansi nostre voglie stesse;

sì che, come noi sem di soglia in soglia
per questo regno, a tutto il regno piace
com’ a lo re che ’n suo voler ne ’nvoglia.

E ’n la sua volontade è nostra pace:
ell’ è quel mare al qual tutto si move
ciò ch’ella crïa o che natura face».

Chiaro mi fu allor come ogne dove
in cielo è paradiso, etsi la grazia
del sommo ben d’un modo non vi piove.

Ma sì com’ elli avvien, s’un cibo sazia
e d’un altro rimane ancor la gola,
che quel si chere e di quel si ringrazia,

così fec’ io con atto e con parola,
per apprender da lei qual fu la tela
onde non trasse infino a co la spuola.

«Perfetta vita e alto merto inciela
donna più sù», mi disse, «a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,

perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch’ogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma.

Dal mondo, per seguirla, giovinetta
fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi
e promisi la via de la sua setta.

Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
Iddio si sa qual poi mia vita fusi.

E quest’ altro splendor che ti si mostra
da la mia destra parte e che s’accende
di tutto il lume de la spera nostra,

ciò ch’io dico di me, di sé intende;
sorella fu, e così le fu tolta
di capo l’ombra de le sacre bende.

Ma poi che pur al mondo fu rivolta
contra suo grado e contra buona usanza,
non fu dal vel del cor già mai disciolta.

Quest’ è la luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò ’l terzo e l’ultima possanza».

Così parlommi, e poi cominciò ‘Ave,
Maria’ cantando, e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave.

La vista mia, che tanto lei seguio
quanto possibil fu, poi che la perse,
volsesi al segno di maggior disio,

e a Beatrice tutta si converse;
ma quella folgorò nel mïo sguardo
sì che da prima il viso non sofferse;

e ciò mi fece a dimandar più tardo.



Paradiso · Canto IV


Intra due cibi, distanti e moventi
d’un modo, prima si morria di fame,
che liber’ omo l’un recasse ai denti;

sì si starebbe un agno intra due brame
di fieri lupi, igualmente temendo;
sì si starebbe un cane intra due dame:

per che, s’i’ mi tacea, me non riprendo,
da li miei dubbi d’un modo sospinto,
poi ch’era necessario, né commendo.

Io mi tacea, ma ’l mio disir dipinto
m’era nel viso, e ’l dimandar con ello,
più caldo assai che per parlar distinto.

Fé sì Beatrice qual fé Danïello,
Nabuccodonosor levando d’ira,
che l’avea fatto ingiustamente fello;

e disse: «Io veggio ben come ti tira
uno e altro disio, sì che tua cura
sé stessa lega sì che fuor non spira.

Tu argomenti: “Se ’l buon voler dura,
la vïolenza altrui per qual ragione
di meritar mi scema la misura?”.

Ancor di dubitar ti dà cagione
parer tornarsi l’anime a le stelle,
secondo la sentenza di Platone.

Queste son le question che nel tuo velle
pontano igualmente; e però pria
tratterò quella che più ha di felle.

D’i Serafin colui che più s’india,
Moïsè, Samuel, e quel Giovanni
che prender vuoli, io dico, non Maria,

non hanno in altro cielo i loro scanni
che questi spirti che mo t’appariro,
né hanno a l’esser lor più o meno anni;

ma tutti fanno bello il primo giro,
e differentemente han dolce vita
per sentir più e men l’etterno spiro.

Qui si mostraro, non perché sortita
sia questa spera lor, ma per far segno
de la celestïal c’ha men salita.

Così parlar conviensi al vostro ingegno,
però che solo da sensato apprende
ciò che fa poscia d’intelletto degno.

Per questo la Scrittura condescende
a vostra facultate, e piedi e mano
attribuisce a Dio e altro intende;

e Santa Chiesa con aspetto umano
Gabrïel e Michel vi rappresenta,
e l’altro che Tobia rifece sano.

Quel che Timeo de l’anime argomenta
non è simile a ciò che qui si vede,
però che, come dice, par che senta.

Dice che l’alma a la sua stella riede,
credendo quella quindi esser decisa
quando natura per forma la diede;

e forse sua sentenza è d’altra guisa
che la voce non suona, ed esser puote
con intenzion da non esser derisa.

S’elli intende tornare a queste ruote
l’onor de la influenza e ’l biasmo, forse
in alcun vero suo arco percuote.

Questo principio, male inteso, torse
già tutto il mondo quasi, sì che Giove,
Mercurio e Marte a nominar trascorse.

L’altra dubitazion che ti commove
ha men velen, però che sua malizia
non ti poria menar da me altrove.

Parere ingiusta la nostra giustizia
ne li occhi d’i mortali, è argomento
di fede e non d’eretica nequizia.

Ma perché puote vostro accorgimento
ben penetrare a questa veritate,
come disiri, ti farò contento.

Se vïolenza è quando quel che pate
nïente conferisce a quel che sforza,
non fuor quest’ alme per essa scusate:

ché volontà, se non vuol, non s’ammorza,
ma fa come natura face in foco,
se mille volte vïolenza il torza.

Per che, s’ella si piega assai o poco,
segue la forza; e così queste fero
possendo rifuggir nel santo loco.

Se fosse stato lor volere intero,
come tenne Lorenzo in su la grada,
e fece Muzio a la sua man severo,

così l’avria ripinte per la strada
ond’ eran tratte, come fuoro sciolte;
ma così salda voglia è troppo rada.

E per queste parole, se ricolte
l’hai come dei, è l’argomento casso
che t’avria fatto noia ancor più volte.

Ma or ti s’attraversa un altro passo
dinanzi a li occhi, tal che per te stesso
non usciresti: pria saresti lasso.

Io t’ho per certo ne la mente messo
ch’alma beata non poria mentire,
però ch’è sempre al primo vero appresso;

e poi potesti da Piccarda udire
che l’affezion del vel Costanza tenne;
sì ch’ella par qui meco contradire.

Molte fïate già, frate, addivenne
che, per fuggir periglio, contra grato
si fé di quel che far non si convenne;

come Almeone, che, di ciò pregato
dal padre suo, la propria madre spense,
per non perder pietà si fé spietato.

A questo punto voglio che tu pense
che la forza al voler si mischia, e fanno
sì che scusar non si posson l’offense.

Voglia assoluta non consente al danno;
ma consentevi in tanto in quanto teme,
se si ritrae, cadere in più affanno.

Però, quando Piccarda quello spreme,
de la voglia assoluta intende, e io
de l’altra; sì che ver diciamo insieme».

Cotal fu l’ondeggiar del santo rio
ch’uscì del fonte ond’ ogne ver deriva;
tal puose in pace uno e altro disio.

«O amanza del primo amante, o diva»,
diss’ io appresso, «il cui parlar m’inonda
e scalda sì, che più e più m’avviva,

non è l’affezion mia tanto profonda,
che basti a render voi grazia per grazia;
ma quei che vede e puote a ciò risponda.

Io veggio ben che già mai non si sazia
nostro intelletto, se ’l ver non lo illustra
di fuor dal qual nessun vero si spazia.

Posasi in esso, come fera in lustra,
tosto che giunto l’ha; e giugner puollo:
se non, ciascun disio sarebbe frustra.

Nasce per quello, a guisa di rampollo,
a piè del vero il dubbio; ed è natura
ch’al sommo pinge noi di collo in collo.

Questo m’invita, questo m’assicura
con reverenza, donna, a dimandarvi
d’un’altra verità che m’è oscura.

Io vo’ saper se l’uom può sodisfarvi
ai voti manchi sì con altri beni,
ch’a la vostra statera non sien parvi».

Beatrice mi guardò con li occhi pieni
di faville d’amor così divini,
che, vinta, mia virtute diè le reni,

e quasi mi perdei con li occhi chini.



Paradiso · Canto V


«S’io ti fiammeggio nel caldo d’amore
di là dal modo che ’n terra si vede,
sì che del viso tuo vinco il valore,

non ti maravigliar, ché ciò procede
da perfetto veder, che, come apprende,
così nel bene appreso move il piede.

Io veggio ben sì come già resplende
ne l’intelletto tuo l’etterna luce,
che, vista, sola e sempre amore accende;

e s’altra cosa vostro amor seduce,
non è se non di quella alcun vestigio,
mal conosciuto, che quivi traluce.

Tu vuo’ saper se con altro servigio,
per manco voto, si può render tanto
che l’anima sicuri di letigio».

Sì cominciò Beatrice questo canto;
e sì com’ uom che suo parlar non spezza,
continüò così ’l processo santo:

«Lo maggior don che Dio per sua larghezza
fesse creando, e a la sua bontate
più conformato, e quel ch’e’ più apprezza,

fu de la volontà la libertate;
di che le creature intelligenti,
e tutte e sole, fuoro e son dotate.

Or ti parrà, se tu quinci argomenti,
l’alto valor del voto, s’è sì fatto
che Dio consenta quando tu consenti;

ché, nel fermar tra Dio e l’omo il patto,
vittima fassi di questo tesoro,
tal quale io dico; e fassi col suo atto.

Dunque che render puossi per ristoro?
Se credi bene usar quel c’hai offerto,
di maltolletto vuo’ far buon lavoro.

Tu se’ omai del maggior punto certo;
ma perché Santa Chiesa in ciò dispensa,
che par contra lo ver ch’i’ t’ho scoverto,

convienti ancor sedere un poco a mensa,
però che ’l cibo rigido c’hai preso,
richiede ancora aiuto a tua dispensa.

Apri la mente a quel ch’io ti paleso
e fermalvi entro; ché non fa scïenza,
sanza lo ritenere, avere inteso.

Due cose si convegnono a l’essenza
di questo sacrificio: l’una è quella
di che si fa; l’altr’ è la convenenza.

Quest’ ultima già mai non si cancella
se non servata; e intorno di lei
sì preciso di sopra si favella:

però necessitato fu a li Ebrei
pur l’offerere, ancor ch’alcuna offerta
sì permutasse, come saver dei.

L’altra, che per materia t’è aperta,
puote ben esser tal, che non si falla
se con altra materia si converta.

Ma non trasmuti carco a la sua spalla
per suo arbitrio alcun, sanza la volta
e de la chiave bianca e de la gialla;

e ogne permutanza credi stolta,
se la cosa dimessa in la sorpresa
come ’l quattro nel sei non è raccolta.

Però qualunque cosa tanto pesa
per suo valor che tragga ogne bilancia,
sodisfar non si può con altra spesa.

Non prendan li mortali il voto a ciancia;
siate fedeli, e a ciò far non bieci,
come Ieptè a la sua prima mancia;

cui più si convenia dicer ‘Mal feci’,
che, servando, far peggio; e così stolto
ritrovar puoi il gran duca de’ Greci,

onde pianse Efigènia il suo bel volto,
e fé pianger di sé i folli e i savi
ch’udir parlar di così fatto cólto.

Siate, Cristiani, a muovervi più gravi:
non siate come penna ad ogne vento,
e non crediate ch’ogne acqua vi lavi.

Avete il novo e ’l vecchio Testamento,
e ’l pastor de la Chiesa che vi guida;
questo vi basti a vostro salvamento.

Se mala cupidigia altro vi grida,
uomini siate, e non pecore matte,
sì che ’l Giudeo di voi tra voi non rida!

Non fate com’ agnel che lascia il latte
de la sua madre, e semplice e lascivo
seco medesmo a suo piacer combatte!».

Così Beatrice a me com’ ïo scrivo;
poi si rivolse tutta disïante
a quella parte ove ’l mondo è più vivo.

Lo suo tacere e ’l trasmutar sembiante
puoser silenzio al mio cupido ingegno,
che già nuove questioni avea davante;

e sì come saetta che nel segno
percuote pria che sia la corda queta,
così corremmo nel secondo regno.

Quivi la donna mia vid’ io sì lieta,
come nel lume di quel ciel si mise,
che più lucente se ne fé ’l pianeta.

E se la stella si cambiò e rise,
qual mi fec’ io che pur da mia natura
trasmutabile son per tutte guise!

Come ’n peschiera ch’è tranquilla e pura
traggonsi i pesci a ciò che vien di fori
per modo che lo stimin lor pastura,

sì vid’ io ben più di mille splendori
trarsi ver’ noi, e in ciascun s’udia:
«Ecco chi crescerà li nostri amori».

E sì come ciascuno a noi venìa,
vedeasi l’ombra piena di letizia
nel folgór chiaro che di lei uscia.

Pensa, lettor, se quel che qui s’inizia
non procedesse, come tu avresti
di più savere angosciosa carizia;

e per te vederai come da questi
m’era in disio d’udir lor condizioni,
sì come a li occhi mi fur manifesti.

«O bene nato a cui veder li troni
del trïunfo etternal concede grazia
prima che la milizia s’abbandoni,

del lume che per tutto il ciel si spazia
noi semo accesi; e però, se disii
di noi chiarirti, a tuo piacer ti sazia».

Così da un di quelli spirti pii
detto mi fu; e da Beatrice: «Dì, dì
sicuramente, e credi come a dii».

«Io veggio ben sì come tu t’annidi
nel proprio lume, e che de li occhi il traggi,
perch’ e’ corusca sì come tu ridi;

ma non so chi tu se’, né perché aggi,
anima degna, il grado de la spera
che si vela a’ mortai con altrui raggi».

Questo diss’ io diritto a la lumera
che pria m’avea parlato; ond’ ella fessi
lucente più assai di quel ch’ell’ era.

Sì come il sol che si cela elli stessi
per troppa luce, come ’l caldo ha róse
le temperanze d’i vapori spessi,

per più letizia sì mi si nascose


 


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