Divina Commedia di Dante
by
Dante Alighieri

Part 9 out of 10



Dal ‘voi’ che prima a Roma s’offerie,
in che la sua famiglia men persevra,
ricominciaron le parole mie;

onde Beatrice, ch’era un poco scevra,
ridendo, parve quella che tossio
al primo fallo scritto di Ginevra.

Io cominciai: «Voi siete il padre mio;
voi mi date a parlar tutta baldezza;
voi mi levate sì, ch’i’ son più ch’io.

Per tanti rivi s’empie d’allegrezza
la mente mia, che di sé fa letizia
perché può sostener che non si spezza.

Ditemi dunque, cara mia primizia,
quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni
che si segnaro in vostra püerizia;

ditemi de l’ovil di San Giovanni
quanto era allora, e chi eran le genti
tra esso degne di più alti scanni».

Come s’avviva a lo spirar d’i venti
carbone in fiamma, così vid’ io quella
luce risplendere a’ miei blandimenti;

e come a li occhi miei si fé più bella,
così con voce più dolce e soave,
ma non con questa moderna favella,

dissemi: «Da quel dì che fu detto ‘Ave’
al parto in che mia madre, ch’è or santa,
s’allevïò di me ond’ era grave,

al suo Leon cinquecento cinquanta
e trenta fiate venne questo foco
a rinfiammarsi sotto la sua pianta.

Li antichi miei e io nacqui nel loco
dove si truova pria l’ultimo sesto
da quei che corre il vostro annüal gioco.

Basti d’i miei maggiori udirne questo:
chi ei si fosser e onde venner quivi,
più è tacer che ragionare onesto.

Tutti color ch’a quel tempo eran ivi
da poter arme tra Marte e ’l Batista,
eran il quinto di quei ch’or son vivi.

Ma la cittadinanza, ch’è or mista
di Campi, di Certaldo e di Fegghine,
pura vediesi ne l’ultimo artista.

Oh quanto fora meglio esser vicine
quelle genti ch’io dico, e al Galluzzo
e a Trespiano aver vostro confine,

che averle dentro e sostener lo puzzo
del villan d’Aguglion, di quel da Signa,
che già per barattare ha l’occhio aguzzo!

Se la gente ch’al mondo più traligna
non fosse stata a Cesare noverca,
ma come madre a suo figlio benigna,

tal fatto è fiorentino e cambia e merca,
che si sarebbe vòlto a Simifonti,
là dove andava l’avolo a la cerca;

sariesi Montemurlo ancor de’ Conti;
sarieno i Cerchi nel piovier d’Acone,
e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.

Sempre la confusion de le persone
principio fu del mal de la cittade,
come del vostro il cibo che s’appone;

e cieco toro più avaccio cade
che cieco agnello; e molte volte taglia
più e meglio una che le cinque spade.

Se tu riguardi Luni e Orbisaglia
come sono ite, e come se ne vanno
di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,

udir come le schiatte si disfanno
non ti parrà nova cosa né forte,
poscia che le cittadi termine hanno.

Le vostre cose tutte hanno lor morte,
sì come voi; ma celasi in alcuna
che dura molto, e le vite son corte.

E come ’l volger del ciel de la luna
cuopre e discuopre i liti sanza posa,
così fa di Fiorenza la Fortuna:

per che non dee parer mirabil cosa
ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini
onde è la fama nel tempo nascosa.

Io vidi li Ughi e vidi i Catellini,
Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi,
già nel calare, illustri cittadini;

e vidi così grandi come antichi,
con quel de la Sannella, quel de l’Arca,
e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi.

Sovra la porta ch’al presente è carca
di nova fellonia di tanto peso
che tosto fia iattura de la barca,

erano i Ravignani, ond’ è disceso
il conte Guido e qualunque del nome
de l’alto Bellincione ha poscia preso.

Quel de la Pressa sapeva già come
regger si vuole, e avea Galigaio
dorata in casa sua già l’elsa e ’l pome.

Grand’ era già la colonna del Vaio,
Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci
e Galli e quei ch’arrossan per lo staio.

Lo ceppo di che nacquero i Calfucci
era già grande, e già eran tratti
a le curule Sizii e Arrigucci.

Oh quali io vidi quei che son disfatti
per lor superbia! e le palle de l’oro
fiorian Fiorenza in tutt’ i suoi gran fatti.

Così facieno i padri di coloro
che, sempre che la vostra chiesa vaca,
si fanno grassi stando a consistoro.

L’oltracotata schiatta che s’indraca
dietro a chi fugge, e a chi mostra ’l dente
o ver la borsa, com’ agnel si placa,

già venìa sù, ma di picciola gente;
sì che non piacque ad Ubertin Donato
che poï il suocero il fé lor parente.

Già era ’l Caponsacco nel mercato
disceso giù da Fiesole, e già era
buon cittadino Giuda e Infangato.

Io dirò cosa incredibile e vera:
nel picciol cerchio s’entrava per porta
che si nomava da quei de la Pera.

Ciascun che de la bella insegna porta
del gran barone il cui nome e ’l cui pregio
la festa di Tommaso riconforta,

da esso ebbe milizia e privilegio;
avvegna che con popol si rauni
oggi colui che la fascia col fregio.

Già eran Gualterotti e Importuni;
e ancor saria Borgo più quïeto,
se di novi vicin fosser digiuni.

La casa di che nacque il vostro fleto,
per lo giusto disdegno che v’ha morti
e puose fine al vostro viver lieto,

era onorata, essa e suoi consorti:
o Buondelmonte, quanto mal fuggisti
le nozze süe per li altrui conforti!

Molti sarebber lieti, che son tristi,
se Dio t’avesse conceduto ad Ema
la prima volta ch’a città venisti.

Ma conveniesi a quella pietra scema
che guarda ’l ponte, che Fiorenza fesse
vittima ne la sua pace postrema.

Con queste genti, e con altre con esse,
vid’ io Fiorenza in sì fatto riposo,
che non avea cagione onde piangesse.

Con queste genti vid’io glorïoso
e giusto il popol suo, tanto che ’l giglio
non era ad asta mai posto a ritroso,

né per divisïon fatto vermiglio».



Paradiso · Canto XVII


Qual venne a Climenè, per accertarsi
di ciò ch’avëa incontro a sé udito,
quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi;

tal era io, e tal era sentito
e da Beatrice e da la santa lampa
che pria per me avea mutato sito.

Per che mia donna «Manda fuor la vampa
del tuo disio», mi disse, «sì ch’ella esca
segnata bene de la interna stampa:

non perché nostra conoscenza cresca
per tuo parlare, ma perché t’ausi
a dir la sete, sì che l’uom ti mesca».

«O cara piota mia che sì t’insusi,
che, come veggion le terrene menti
non capere in trïangol due ottusi,

così vedi le cose contingenti
anzi che sieno in sé, mirando il punto
a cui tutti li tempi son presenti;

mentre ch’io era a Virgilio congiunto
su per lo monte che l’anime cura
e discendendo nel mondo defunto,

dette mi fuor di mia vita futura
parole gravi, avvegna ch’io mi senta
ben tetragono ai colpi di ventura;

per che la voglia mia saria contenta
d’intender qual fortuna mi s’appressa:
ché saetta previsa vien più lenta».

Così diss’ io a quella luce stessa
che pria m’avea parlato; e come volle
Beatrice, fu la mia voglia confessa.

Né per ambage, in che la gente folle
già s’inviscava pria che fosse anciso
l’Agnel di Dio che le peccata tolle,

ma per chiare parole e con preciso
latin rispuose quello amor paterno,
chiuso e parvente del suo proprio riso:

«La contingenza, che fuor del quaderno
de la vostra matera non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto etterno;

necessità però quindi non prende
se non come dal viso in che si specchia
nave che per torrente giù discende.

Da indi, sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti s’apparecchia.

Qual si partio Ipolito d’Atene
per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene.

Questo si vuole e questo già si cerca,
e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
là dove Cristo tutto dì si merca.

La colpa seguirà la parte offensa
in grido, come suol; ma la vendetta
fia testimonio al ver che la dispensa.

Tu lascerai ogne cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l’arco de lo essilio pria saetta.

Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ’l salir per l’altrui scale.

E quel che più ti graverà le spalle,
sarà la compagnia malvagia e scempia
con la qual tu cadrai in questa valle;

che tutta ingrata, tutta matta ed empia
si farà contr’ a te; ma, poco appresso,
ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.

Di sua bestialitate il suo processo
farà la prova; sì ch’a te fia bello
averti fatta parte per te stesso.

Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che ’n su la scala porta il santo uccello;

ch’in te avrà sì benigno riguardo,
che del fare e del chieder, tra voi due,
fia primo quel che tra li altri è più tardo.

Con lui vedrai colui che ’mpresso fue,
nascendo, sì da questa stella forte,
che notabili fier l’opere sue.

Non se ne son le genti ancora accorte
per la novella età, ché pur nove anni
son queste rote intorno di lui torte;

ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni,
parran faville de la sua virtute
in non curar d’argento né d’affanni.

Le sue magnificenze conosciute
saranno ancora, sì che ’ suoi nemici
non ne potran tener le lingue mute.

A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;
per lui fia trasmutata molta gente,
cambiando condizion ricchi e mendici;

e portera’ne scritto ne la mente
di lui, e nol dirai»; e disse cose
incredibili a quei che fier presente.

Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose
di quel che ti fu detto; ecco le ’nsidie
che dietro a pochi giri son nascose.

Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,
poscia che s’infutura la tua vita
vie più là che ’l punir di lor perfidie».

Poi che, tacendo, si mostrò spedita
l’anima santa di metter la trama
in quella tela ch’io le porsi ordita,

io cominciai, come colui che brama,
dubitando, consiglio da persona
che vede e vuol dirittamente e ama:

«Ben veggio, padre mio, sì come sprona
lo tempo verso me, per colpo darmi
tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona;

per che di provedenza è buon ch’io m’armi,
sì che, se loco m’è tolto più caro,
io non perdessi li altri per miei carmi.

Giù per lo mondo sanza fine amaro,
e per lo monte del cui bel cacume
li occhi de la mia donna mi levaro,

e poscia per lo ciel, di lume in lume,
ho io appreso quel che s’io ridico,
a molti fia sapor di forte agrume;

e s’io al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico».

La luce in che rideva il mio tesoro
ch’io trovai lì, si fé prima corusca,
quale a raggio di sole specchio d’oro;

indi rispuose: «Coscïenza fusca
o de la propria o de l’altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.

Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’ è la rogna.

Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.

Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento.

Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note,

che l’animo di quel ch’ode, non posa
né ferma fede per essempro ch’aia
la sua radice incognita e ascosa,

né per altro argomento che non paia».



Paradiso · Canto XVIII


Già si godeva solo del suo verbo
quello specchio beato, e io gustava
lo mio, temprando col dolce l’acerbo;

e quella donna ch’a Dio mi menava
disse: «Muta pensier; pensa ch’i’ sono
presso a colui ch’ogne torto disgrava».

Io mi rivolsi a l’amoroso suono
del mio conforto; e qual io allor vidi
ne li occhi santi amor, qui l’abbandono:

non perch’ io pur del mio parlar diffidi,
ma per la mente che non può redire
sovra sé tanto, s’altri non la guidi.

Tanto poss’ io di quel punto ridire,
che, rimirando lei, lo mio affetto
libero fu da ogne altro disire,

fin che ’l piacere etterno, che diretto
raggiava in Bëatrice, dal bel viso
mi contentava col secondo aspetto.

Vincendo me col lume d’un sorriso,
ella mi disse: «Volgiti e ascolta;
ché non pur ne’ miei occhi è paradiso».

Come si vede qui alcuna volta
l’affetto ne la vista, s’elli è tanto,
che da lui sia tutta l’anima tolta,

così nel fiammeggiar del folgór santo,
a ch’io mi volsi, conobbi la voglia
in lui di ragionarmi ancora alquanto.

El cominciò: «In questa quinta soglia
de l’albero che vive de la cima
e frutta sempre e mai non perde foglia,

spiriti son beati, che giù, prima
che venissero al ciel, fuor di gran voce,
sì ch’ogne musa ne sarebbe opima.

Però mira ne’ corni de la croce:
quello ch’io nomerò, lì farà l’atto
che fa in nube il suo foco veloce».

Io vidi per la croce un lume tratto
dal nomar Iosuè, com’ el si feo;
né mi fu noto il dir prima che ’l fatto.

E al nome de l’alto Macabeo
vidi moversi un altro roteando,
e letizia era ferza del paleo.

Così per Carlo Magno e per Orlando
due ne seguì lo mio attento sguardo,
com’ occhio segue suo falcon volando.

Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo
e ’l duca Gottifredi la mia vista
per quella croce, e Ruberto Guiscardo.

Indi, tra l’altre luci mota e mista,
mostrommi l’alma che m’avea parlato
qual era tra i cantor del cielo artista.

Io mi rivolsi dal mio destro lato
per vedere in Beatrice il mio dovere,
o per parlare o per atto, segnato;

e vidi le sue luci tanto mere,
tanto gioconde, che la sua sembianza
vinceva li altri e l’ultimo solere.

E come, per sentir più dilettanza
bene operando, l’uom di giorno in giorno
s’accorge che la sua virtute avanza,

sì m’accors’ io che ’l mio girare intorno
col cielo insieme avea cresciuto l’arco,
veggendo quel miracol più addorno.

E qual è ’l trasmutare in picciol varco
di tempo in bianca donna, quando ’l volto
suo si discarchi di vergogna il carco,

tal fu ne li occhi miei, quando fui vòlto,
per lo candor de la temprata stella
sesta, che dentro a sé m’avea ricolto.

Io vidi in quella giovïal facella
lo sfavillar de l’amor che lì era
segnare a li occhi miei nostra favella.

E come augelli surti di rivera,
quasi congratulando a lor pasture,
fanno di sé or tonda or altra schiera,

sì dentro ai lumi sante creature
volitando cantavano, e faciensi
or D, or I, or L in sue figure.

Prima, cantando, a sua nota moviensi;
poi, diventando l’un di questi segni,
un poco s’arrestavano e taciensi.

O diva Pegasëa che li ’ngegni
fai glorïosi e rendili longevi,
ed essi teco le cittadi e ’ regni,

illustrami di te, sì ch’io rilevi
le lor figure com’ io l’ho concette:
paia tua possa in questi versi brevi!

Mostrarsi dunque in cinque volte sette
vocali e consonanti; e io notai
le parti sì, come mi parver dette.

‘DILIGITE IUSTITIAM’, primai
fur verbo e nome di tutto ’l dipinto;
‘QUI IUDICATIS TERRAM’, fur sezzai.

Poscia ne l’emme del vocabol quinto
rimasero ordinate; sì che Giove
pareva argento lì d’oro distinto.

E vidi scendere altre luci dove
era il colmo de l’emme, e lì quetarsi
cantando, credo, il ben ch’a sé le move.

Poi, come nel percuoter d’i ciocchi arsi
surgono innumerabili faville,
onde li stolti sogliono agurarsi,

resurger parver quindi più di mille
luci e salir, qual assai e qual poco,
sì come ’l sol che l’accende sortille;

e quïetata ciascuna in suo loco,
la testa e ’l collo d’un’aguglia vidi
rappresentare a quel distinto foco.

Quei che dipinge lì, non ha chi ’l guidi;
ma esso guida, e da lui si rammenta
quella virtù ch’è forma per li nidi.

L’altra bëatitudo, che contenta
pareva prima d’ingigliarsi a l’emme,
con poco moto seguitò la ’mprenta.

O dolce stella, quali e quante gemme
mi dimostraro che nostra giustizia
effetto sia del ciel che tu ingemme!

Per ch’io prego la mente in che s’inizia
tuo moto e tua virtute, che rimiri
ond’ esce il fummo che ’l tuo raggio vizia;

sì ch’un’altra fïata omai s’adiri
del comperare e vender dentro al templo
che si murò di segni e di martìri.

O milizia del ciel cu’ io contemplo,
adora per color che sono in terra
tutti svïati dietro al malo essemplo!

Già si solea con le spade far guerra;
ma or si fa togliendo or qui or quivi
lo pan che ’l pïo Padre a nessun serra.

Ma tu che sol per cancellare scrivi,
pensa che Pietro e Paulo, che moriro
per la vigna che guasti, ancor son vivi.

Ben puoi tu dire: «I’ ho fermo ’l disiro
sì a colui che volle viver solo
e che per salti fu tratto al martiro,

ch’io non conosco il pescator né Polo».



Paradiso · Canto XIX


Parea dinanzi a me con l’ali aperte
la bella image che nel dolce frui
liete facevan l’anime conserte;

parea ciascuna rubinetto in cui
raggio di sole ardesse sì acceso,
che ne’ miei occhi rifrangesse lui.

E quel che mi convien ritrar testeso,
non portò voce mai, né scrisse incostro,
né fu per fantasia già mai compreso;

ch’io vidi e anche udi’ parlar lo rostro,
e sonar ne la voce e «io» e «mio»,
quand’ era nel concetto e ‘noi’ e ‘nostro’.

E cominciò: «Per esser giusto e pio
son io qui essaltato a quella gloria
che non si lascia vincere a disio;

e in terra lasciai la mia memoria
sì fatta, che le genti lì malvage
commendan lei, ma non seguon la storia».

Così un sol calor di molte brage
si fa sentir, come di molti amori
usciva solo un suon di quella image.

Ond’ io appresso: «O perpetüi fiori
de l’etterna letizia, che pur uno
parer mi fate tutti vostri odori,

solvetemi, spirando, il gran digiuno
che lungamente m’ha tenuto in fame,
non trovandoli in terra cibo alcuno.

Ben so io che, se ’n cielo altro reame
la divina giustizia fa suo specchio,
che ’l vostro non l’apprende con velame.

Sapete come attento io m’apparecchio
ad ascoltar; sapete qual è quello
dubbio che m’è digiun cotanto vecchio».

Quasi falcone ch’esce del cappello,
move la testa e con l’ali si plaude,
voglia mostrando e faccendosi bello,

vid’ io farsi quel segno, che di laude
de la divina grazia era contesto,
con canti quai si sa chi là sù gaude.

Poi cominciò: «Colui che volse il sesto
a lo stremo del mondo, e dentro ad esso
distinse tanto occulto e manifesto,

non poté suo valor sì fare impresso
in tutto l’universo, che ’l suo verbo
non rimanesse in infinito eccesso.

E ciò fa certo che ’l primo superbo,
che fu la somma d’ogne creatura,
per non aspettar lume, cadde acerbo;

e quinci appar ch’ogne minor natura
è corto recettacolo a quel bene
che non ha fine e sé con sé misura.

Dunque vostra veduta, che convene
esser alcun de’ raggi de la mente
di che tutte le cose son ripiene,

non pò da sua natura esser possente
tanto, che suo principio discerna
molto di là da quel che l’è parvente.

Però ne la giustizia sempiterna
la vista che riceve il vostro mondo,
com’ occhio per lo mare, entro s’interna;

che, ben che da la proda veggia il fondo,
in pelago nol vede; e nondimeno
èli, ma cela lui l’esser profondo.

Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai; anzi è tenèbra
od ombra de la carne o suo veleno.

Assai t’è mo aperta la latebra
che t’ascondeva la giustizia viva,
di che facei question cotanto crebra;

ché tu dicevi: “Un uom nasce a la riva
de l’Indo, e quivi non è chi ragioni
di Cristo né chi legga né chi scriva;

e tutti suoi voleri e atti buoni
sono, quanto ragione umana vede,
sanza peccato in vita o in sermoni.

Muore non battezzato e sanza fede:
ov’ è questa giustizia che ’l condanna?
ov’ è la colpa sua, se ei non crede?”.

Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna,
per giudicar di lungi mille miglia
con la veduta corta d’una spanna?

Certo a colui che meco s’assottiglia,
se la Scrittura sovra voi non fosse,
da dubitar sarebbe a maraviglia.

Oh terreni animali! oh menti grosse!
La prima volontà, ch’è da sé buona,
da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse.

Cotanto è giusto quanto a lei consuona:
nullo creato bene a sé la tira,
ma essa, radïando, lui cagiona».

Quale sovresso il nido si rigira
poi c’ha pasciuti la cicogna i figli,
e come quel ch’è pasto la rimira;

cotal si fece, e sì leväi i cigli,
la benedetta imagine, che l’ali
movea sospinte da tanti consigli.

Roteando cantava, e dicea: «Quali
son le mie note a te, che non le ’ntendi,
tal è il giudicio etterno a voi mortali».

Poi si quetaro quei lucenti incendi
de lo Spirito Santo ancor nel segno
che fé i Romani al mondo reverendi,

esso ricominciò: «A questo regno
non salì mai chi non credette ’n Cristo,
né pria né poi ch’el si chiavasse al legno.

Ma vedi: molti gridan “Cristo, Cristo!”,
che saranno in giudicio assai men prope
a lui, che tal che non conosce Cristo;

e tai Cristian dannerà l’Etïòpe,
quando si partiranno i due collegi,
l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe.

Che poran dir li Perse a’ vostri regi,
come vedranno quel volume aperto
nel qual si scrivon tutti suoi dispregi?

Lì si vedrà, tra l’opere d’Alberto,
quella che tosto moverà la penna,
per che ’l regno di Praga fia diserto.

Lì si vedrà il duol che sovra Senna
induce, falseggiando la moneta,
quel che morrà di colpo di cotenna.

Lì si vedrà la superbia ch’asseta,
che fa lo Scotto e l’Inghilese folle,
sì che non può soffrir dentro a sua meta.

Vedrassi la lussuria e ’l viver molle
di quel di Spagna e di quel di Boemme,
che mai valor non conobbe né volle.

Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme
segnata con un i la sua bontate,
quando ’l contrario segnerà un emme.

Vedrassi l’avarizia e la viltate
di quei che guarda l’isola del foco,
ove Anchise finì la lunga etate;

e a dare ad intender quanto è poco,
la sua scrittura fian lettere mozze,
che noteranno molto in parvo loco.

E parranno a ciascun l’opere sozze
del barba e del fratel, che tanto egregia
nazione e due corone han fatte bozze.

E quel di Portogallo e di Norvegia
lì si conosceranno, e quel di Rascia
che male ha visto il conio di Vinegia.

Oh beata Ungheria, se non si lascia
più malmenare! e beata Navarra,
se s’armasse del monte che la fascia!

E creder de’ ciascun che già, per arra
di questo, Niccosïa e Famagosta
per la lor bestia si lamenti e garra,

che dal fianco de l’altre non si scosta».



Paradiso · Canto XX


Quando colui che tutto ’l mondo alluma
de l’emisperio nostro sì discende,
che ’l giorno d’ogne parte si consuma,

lo ciel, che sol di lui prima s’accende,
subitamente si rifà parvente
per molte luci, in che una risplende;

e questo atto del ciel mi venne a mente,
come ’l segno del mondo e de’ suoi duci
nel benedetto rostro fu tacente;

però che tutte quelle vive luci,
vie più lucendo, cominciaron canti
da mia memoria labili e caduci.

O dolce amor che di riso t’ammanti,
quanto parevi ardente in que’ flailli,
ch’avieno spirto sol di pensier santi!

Poscia che i cari e lucidi lapilli
ond’ io vidi ingemmato il sesto lume
puoser silenzio a li angelici squilli,

udir mi parve un mormorar di fiume
che scende chiaro giù di pietra in pietra,
mostrando l’ubertà del suo cacume.

E come suono al collo de la cetra
prende sua forma, e sì com’ al pertugio
de la sampogna vento che penètra,

così, rimosso d’aspettare indugio,
quel mormorar de l’aguglia salissi
su per lo collo, come fosse bugio.

Fecesi voce quivi, e quindi uscissi
per lo suo becco in forma di parole,
quali aspettava il core ov’ io le scrissi.

«La parte in me che vede e pate il sole
ne l’aguglie mortali», incominciommi,
«or fisamente riguardar si vole,

perché d’i fuochi ond’ io figura fommi,
quelli onde l’occhio in testa mi scintilla,
e’ di tutti lor gradi son li sommi.

Colui che luce in mezzo per pupilla,
fu il cantor de lo Spirito Santo,
che l’arca traslatò di villa in villa:

ora conosce il merto del suo canto,
in quanto effetto fu del suo consiglio,
per lo remunerar ch’è altrettanto.

Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio,
colui che più al becco mi s’accosta,
la vedovella consolò del figlio:

ora conosce quanto caro costa
non seguir Cristo, per l’esperïenza
di questa dolce vita e de l’opposta.

E quel che segue in la circunferenza
di che ragiono, per l’arco superno,
morte indugiò per vera penitenza:

ora conosce che ’l giudicio etterno
non si trasmuta, quando degno preco
fa crastino là giù de l’odïerno.

L’altro che segue, con le leggi e meco,
sotto buona intenzion che fé mal frutto,
per cedere al pastor si fece greco:

ora conosce come il mal dedutto
dal suo bene operar non li è nocivo,
avvegna che sia ’l mondo indi distrutto.

E quel che vedi ne l’arco declivo,
Guiglielmo fu, cui quella terra plora
che piagne Carlo e Federigo vivo:

ora conosce come s’innamora
lo ciel del giusto rege, e al sembiante
del suo fulgore il fa vedere ancora.

Chi crederebbe giù nel mondo errante
che Rifëo Troiano in questo tondo
fosse la quinta de le luci sante?

Ora conosce assai di quel che ’l mondo
veder non può de la divina grazia,
ben che sua vista non discerna il fondo».

Quale allodetta che ’n aere si spazia
prima cantando, e poi tace contenta
de l’ultima dolcezza che la sazia,

tal mi sembiò l’imago de la ’mprenta
de l’etterno piacere, al cui disio
ciascuna cosa qual ell’ è diventa.

E avvegna ch’io fossi al dubbiar mio
lì quasi vetro a lo color ch’el veste,
tempo aspettar tacendo non patio,

ma de la bocca, «Che cose son queste?»,
mi pinse con la forza del suo peso:
per ch’io di coruscar vidi gran feste.

Poi appresso, con l’occhio più acceso,
lo benedetto segno mi rispuose
per non tenermi in ammirar sospeso:

«Io veggio che tu credi queste cose
perch’ io le dico, ma non vedi come;
sì che, se son credute, sono ascose.

Fai come quei che la cosa per nome
apprende ben, ma la sua quiditate
veder non può se altri non la prome.

Regnum celorum vïolenza pate
da caldo amore e da viva speranza,
che vince la divina volontate:

non a guisa che l’omo a l’om sobranza,
ma vince lei perché vuole esser vinta,
e, vinta, vince con sua beninanza.

La prima vita del ciglio e la quinta
ti fa maravigliar, perché ne vedi
la regïon de li angeli dipinta.

D’i corpi suoi non uscir, come credi,
Gentili, ma Cristiani, in ferma fede
quel d’i passuri e quel d’i passi piedi.

Ché l’una de lo ’nferno, u’ non si riede
già mai a buon voler, tornò a l’ossa;
e ciò di viva spene fu mercede:

di viva spene, che mise la possa
ne’ prieghi fatti a Dio per suscitarla,
sì che potesse sua voglia esser mossa.

L’anima glorïosa onde si parla,
tornata ne la carne, in che fu poco,
credette in lui che potëa aiutarla;

e credendo s’accese in tanto foco
di vero amor, ch’a la morte seconda
fu degna di venire a questo gioco.

L’altra, per grazia che da sì profonda
fontana stilla, che mai creatura
non pinse l’occhio infino a la prima onda,

tutto suo amor là giù pose a drittura:
per che, di grazia in grazia, Dio li aperse
l’occhio a la nostra redenzion futura;

ond’ ei credette in quella, e non sofferse
da indi il puzzo più del paganesmo;
e riprendiene le genti perverse.

Quelle tre donne li fur per battesmo
che tu vedesti da la destra rota,
dinanzi al battezzar più d’un millesmo.

O predestinazion, quanto remota
è la radice tua da quelli aspetti
che la prima cagion non veggion tota!

E voi, mortali, tenetevi stretti
a giudicar: ché noi, che Dio vedemo,
non conosciamo ancor tutti li eletti;

ed ènne dolce così fatto scemo,
perché il ben nostro in questo ben s’affina,
che quel che vole Iddio, e noi volemo».

Così da quella imagine divina,
per farmi chiara la mia corta vista,
data mi fu soave medicina.

E come a buon cantor buon citarista
fa seguitar lo guizzo de la corda,
in che più di piacer lo canto acquista,

sì, mentre ch’e’ parlò, sì mi ricorda
ch’io vidi le due luci benedette,
pur come batter d’occhi si concorda,

con le parole mover le fiammette.



Paradiso · Canto XXI


Già eran li occhi miei rifissi al volto
de la mia donna, e l’animo con essi,
e da ogne altro intento s’era tolto.

E quella non ridea; ma «S’io ridessi»,
mi cominciò, «tu ti faresti quale
fu Semelè quando di cener fessi:

ché la bellezza mia, che per le scale
de l’etterno palazzo più s’accende,
com’ hai veduto, quanto più si sale,

se non si temperasse, tanto splende,
che ’l tuo mortal podere, al suo fulgore,
sarebbe fronda che trono scoscende.

Noi sem levati al settimo splendore,
che sotto ’l petto del Leone ardente
raggia mo misto giù del suo valore.

Ficca di retro a li occhi tuoi la mente,
e fa di quelli specchi a la figura
che ’n questo specchio ti sarà parvente».

Qual savesse qual era la pastura
del viso mio ne l’aspetto beato
quand’ io mi trasmutai ad altra cura,

conoscerebbe quanto m’era a grato
ubidire a la mia celeste scorta,
contrapesando l’un con l’altro lato.

Dentro al cristallo che ’l vocabol porta,
cerchiando il mondo, del suo caro duce
sotto cui giacque ogne malizia morta,

di color d’oro in che raggio traluce
vid’ io uno scaleo eretto in suso
tanto, che nol seguiva la mia luce.

Vidi anche per li gradi scender giuso
tanti splendor, ch’io pensai ch’ogne lume
che par nel ciel, quindi fosse diffuso.

E come, per lo natural costume,
le pole insieme, al cominciar del giorno,
si movono a scaldar le fredde piume;

poi altre vanno via sanza ritorno,
altre rivolgon sé onde son mosse,
e altre roteando fan soggiorno;

tal modo parve me che quivi fosse
in quello sfavillar che ’nsieme venne,
sì come in certo grado si percosse.

E quel che presso più ci si ritenne,
si fé sì chiaro, ch’io dicea pensando:
‘Io veggio ben l’amor che tu m’accenne.

Ma quella ond’ io aspetto il come e ’l quando
del dire e del tacer, si sta; ond’ io,
contra ’l disio, fo ben ch’io non dimando’.

Per ch’ella, che vedëa il tacer mio
nel veder di colui che tutto vede,
mi disse: «Solvi il tuo caldo disio».

E io incominciai: «La mia mercede
non mi fa degno de la tua risposta;
ma per colei che ’l chieder mi concede,

vita beata che ti stai nascosta
dentro a la tua letizia, fammi nota
la cagion che sì presso mi t’ha posta;

e dì perché si tace in questa rota
la dolce sinfonia di paradiso,
che giù per l’altre suona sì divota».

«Tu hai l’udir mortal sì come il viso»,
rispuose a me; «onde qui non si canta
per quel che Bëatrice non ha riso.

Giù per li gradi de la scala santa
discesi tanto sol per farti festa
col dire e con la luce che mi ammanta;

né più amor mi fece esser più presta,
ché più e tanto amor quinci sù ferve,
sì come il fiammeggiar ti manifesta.

Ma l’alta carità, che ci fa serve
pronte al consiglio che ’l mondo governa,
sorteggia qui sì come tu osserve».

«Io veggio ben», diss’ io, «sacra lucerna,
come libero amore in questa corte
basta a seguir la provedenza etterna;

ma questo è quel ch’a cerner mi par forte,
perché predestinata fosti sola
a questo officio tra le tue consorte».

Né venni prima a l’ultima parola,
che del suo mezzo fece il lume centro,
girando sé come veloce mola;

poi rispuose l’amor che v’era dentro:
«Luce divina sopra me s’appunta,
penetrando per questa in ch’io m’inventro,

la cui virtù, col mio veder congiunta,
mi leva sopra me tanto, ch’i’ veggio
la somma essenza de la quale è munta.

Quinci vien l’allegrezza ond’ io fiammeggio;
per ch’a la vista mia, quant’ ella è chiara,
la chiarità de la fiamma pareggio.

Ma quell’ alma nel ciel che più si schiara,
quel serafin che ’n Dio più l’occhio ha fisso,
a la dimanda tua non satisfara,

però che sì s’innoltra ne lo abisso
de l’etterno statuto quel che chiedi,
che da ogne creata vista è scisso.

E al mondo mortal, quando tu riedi,
questo rapporta, sì che non presumma
a tanto segno più mover li piedi.

La mente, che qui luce, in terra fumma;
onde riguarda come può là giùe
quel che non pote perché ’l ciel l’assumma».

Sì mi prescrisser le parole sue,
ch’io lasciai la quistione e mi ritrassi
a dimandarla umilmente chi fue.

«Tra ’ due liti d’Italia surgon sassi,
e non molto distanti a la tua patria,
tanto che ’ troni assai suonan più bassi,

e fanno un gibbo che si chiama Catria,
di sotto al quale è consecrato un ermo,
che suole esser disposto a sola latria».

Così ricominciommi il terzo sermo;
e poi, continüando, disse: «Quivi
al servigio di Dio mi fe’ sì fermo,

che pur con cibi di liquor d’ulivi
lievemente passava caldi e geli,
contento ne’ pensier contemplativi.

Render solea quel chiostro a questi cieli
fertilemente; e ora è fatto vano,
sì che tosto convien che si riveli.

In quel loco fu’ io Pietro Damiano,
e Pietro Peccator fu’ ne la casa
di Nostra Donna in sul lito adriano.

Poca vita mortal m’era rimasa,
quando fui chiesto e tratto a quel cappello,
che pur di male in peggio si travasa.

Venne Cefàs e venne il gran vasello
de lo Spirito Santo, magri e scalzi,
prendendo il cibo da qualunque ostello.

Or voglion quinci e quindi chi rincalzi
li moderni pastori e chi li meni,
tanto son gravi, e chi di rietro li alzi.

Cuopron d’i manti loro i palafreni,
sì che due bestie van sott’ una pelle:
oh pazïenza che tanto sostieni!».

A questa voce vid’ io più fiammelle
di grado in grado scendere e girarsi,
e ogne giro le facea più belle.

Dintorno a questa vennero e fermarsi,
e fero un grido di sì alto suono,
che non potrebbe qui assomigliarsi;

né io lo ’ntesi, sì mi vinse il tuono.



Paradiso · Canto XXII


Oppresso di stupore, a la mia guida
mi volsi, come parvol che ricorre
sempre colà dove più si confida;

e quella, come madre che soccorre
sùbito al figlio palido e anelo
con la sua voce, che ’l suol ben disporre,

mi disse: «Non sai tu che tu se’ in cielo?
e non sai tu che ’l cielo è tutto santo,
e ciò che ci si fa vien da buon zelo?

Come t’avrebbe trasmutato il canto,
e io ridendo, mo pensar lo puoi,
poscia che ’l grido t’ha mosso cotanto;

nel qual, se ’nteso avessi i prieghi suoi,
già ti sarebbe nota la vendetta
che tu vedrai innanzi che tu muoi.

La spada di qua sù non taglia in fretta
né tardo, ma’ ch’al parer di colui
che disïando o temendo l’aspetta.

Ma rivolgiti omai inverso altrui;
ch’assai illustri spiriti vedrai,
se com’ io dico l’aspetto redui».

Come a lei piacque, li occhi ritornai,
e vidi cento sperule che ’nsieme
più s’abbellivan con mutüi rai.

Io stava come quei che ’n sé repreme
la punta del disio, e non s’attenta
di domandar, sì del troppo si teme;

e la maggiore e la più luculenta
di quelle margherite innanzi fessi,
per far di sé la mia voglia contenta.

Poi dentro a lei udi’: «Se tu vedessi
com’ io la carità che tra noi arde,
li tuoi concetti sarebbero espressi.

Ma perché tu, aspettando, non tarde
a l’alto fine, io ti farò risposta
pur al pensier, da che sì ti riguarde.

Quel monte a cui Cassino è ne la costa
fu frequentato già in su la cima
da la gente ingannata e mal disposta;

e quel son io che sù vi portai prima
lo nome di colui che ’n terra addusse
la verità che tanto ci soblima;

e tanta grazia sopra me relusse,
ch’io ritrassi le ville circunstanti
da l’empio cólto che ’l mondo sedusse.

Questi altri fuochi tutti contemplanti
uomini fuoro, accesi di quel caldo
che fa nascere i fiori e ’ frutti santi.

Qui è Maccario, qui è Romoaldo,
qui son li frati miei che dentro ai chiostri
fermar li piedi e tennero il cor saldo».

E io a lui: «L’affetto che dimostri
meco parlando, e la buona sembianza
ch’io veggio e noto in tutti li ardor vostri,

così m’ha dilatata mia fidanza,
come ’l sol fa la rosa quando aperta
tanto divien quant’ ell’ ha di possanza.

Però ti priego, e tu, padre, m’accerta
s’io posso prender tanta grazia, ch’io
ti veggia con imagine scoverta».

Ond’ elli: «Frate, il tuo alto disio
s’adempierà in su l’ultima spera,
ove s’adempion tutti li altri e ’l mio.

Ivi è perfetta, matura e intera
ciascuna disïanza; in quella sola
è ogne parte là ove sempr’ era,

perché non è in loco e non s’impola;
e nostra scala infino ad essa varca,
onde così dal viso ti s’invola.

Infin là sù la vide il patriarca
Iacobbe porger la superna parte,
quando li apparve d’angeli sì carca.

Ma, per salirla, mo nessun diparte
da terra i piedi, e la regola mia
rimasa è per danno de le carte.

Le mura che solieno esser badia
fatte sono spelonche, e le cocolle
sacca son piene di farina ria.

Ma grave usura tanto non si tolle
contra ’l piacer di Dio, quanto quel frutto
che fa il cor de’ monaci sì folle;

ché quantunque la Chiesa guarda, tutto
è de la gente che per Dio dimanda;
non di parenti né d’altro più brutto.

La carne d’i mortali è tanto blanda,
che giù non basta buon cominciamento
dal nascer de la quercia al far la ghianda.

Pier cominciò sanz’ oro e sanz’ argento,
e io con orazione e con digiuno,
e Francesco umilmente il suo convento;

e se guardi ’l principio di ciascuno,
poscia riguardi là dov’ è trascorso,
tu vederai del bianco fatto bruno.

Veramente Iordan vòlto retrorso
più fu, e ’l mar fuggir, quando Dio volse,
mirabile a veder che qui ’l soccorso».

Così mi disse, e indi si raccolse
al suo collegio, e ’l collegio si strinse;
poi, come turbo, in sù tutto s’avvolse.

La dolce donna dietro a lor mi pinse
con un sol cenno su per quella scala,
sì sua virtù la mia natura vinse;

né mai qua giù dove si monta e cala
naturalmente, fu sì ratto moto
ch’agguagliar si potesse a la mia ala.

S’io torni mai, lettore, a quel divoto
trïunfo per lo quale io piango spesso
le mie peccata e ’l petto mi percuoto,

tu non avresti in tanto tratto e messo
nel foco il dito, in quant’ io vidi ’l segno
che segue il Tauro e fui dentro da esso.

O glorïose stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sia, il mio ingegno,

con voi nasceva e s’ascondeva vosco
quelli ch’è padre d’ogne mortal vita,
quand’ io senti’ di prima l’aere tosco;

e poi, quando mi fu grazia largita
d’entrar ne l’alta rota che vi gira,
la vostra regïon mi fu sortita.

A voi divotamente ora sospira
l’anima mia, per acquistar virtute
al passo forte che a sé la tira.

«Tu se’ sì presso a l’ultima salute»,
cominciò Bëatrice, «che tu dei
aver le luci tue chiare e acute;

e però, prima che tu più t’inlei,
rimira in giù, e vedi quanto mondo
sotto li piedi già esser ti fei;

sì che ’l tuo cor, quantunque può, giocondo
s’appresenti a la turba trïunfante
che lieta vien per questo etera tondo».

Col viso ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo
tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;

e quel consiglio per migliore approbo
che l’ha per meno; e chi ad altro pensa
chiamar si puote veramente probo.

Vidi la figlia di Latona incensa
sanza quell’ ombra che mi fu cagione
per che già la credetti rara e densa.

L’aspetto del tuo nato, Iperïone,
quivi sostenni, e vidi com’ si move
circa e vicino a lui Maia e Dïone.

Quindi m’apparve il temperar di Giove
tra ’l padre e ’l figlio; e quindi mi fu chiaro
il varïar che fanno di lor dove;

e tutti e sette mi si dimostraro
quanto son grandi e quanto son veloci
e come sono in distante riparo.

L’aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom’ io con li etterni Gemelli,
tutta m’apparve da’ colli a le foci;

poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.



Paradiso · Canto XXIII


Come l’augello, intra l’amate fronde,
posato al nido de’ suoi dolci nati
la notte che le cose ci nasconde,

che, per veder li aspetti disïati
e per trovar lo cibo onde li pasca,
in che gravi labor li sono aggrati,

previene il tempo in su aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur che l’alba nasca;

così la donna mïa stava eretta
e attenta, rivolta inver’ la plaga
sotto la quale il sol mostra men fretta:

sì che, veggendola io sospesa e vaga,
fecimi qual è quei che disïando
altro vorria, e sperando s’appaga.

Ma poco fu tra uno e altro quando,
del mio attender, dico, e del vedere
lo ciel venir più e più rischiarando;

e Bëatrice disse: «Ecco le schiere
del trïunfo di Cristo e tutto ’l frutto
ricolto del girar di queste spere!».

Pariemi che ’l suo viso ardesse tutto,
e li occhi avea di letizia sì pieni,
che passarmen convien sanza costrutto.

Quale ne’ plenilunïi sereni
Trivïa ride tra le ninfe etterne
che dipingon lo ciel per tutti i seni,

vid’ i’ sopra migliaia di lucerne
un sol che tutte quante l’accendea,
come fa ’l nostro le viste superne;

e per la viva luce trasparea
la lucente sustanza tanto chiara
nel viso mio, che non la sostenea.

Oh Bëatrice, dolce guida e cara!
Ella mi disse: «Quel che ti sobranza
è virtù da cui nulla si ripara.

Quivi è la sapïenza e la possanza
ch’aprì le strade tra ’l cielo e la terra,
onde fu già sì lunga disïanza».

Come foco di nube si diserra
per dilatarsi sì che non vi cape,
e fuor di sua natura in giù s’atterra,

la mente mia così, tra quelle dape
fatta più grande, di sé stessa uscìo,
e che si fesse rimembrar non sape.

«Apri li occhi e riguarda qual son io;
tu hai vedute cose, che possente
se’ fatto a sostener lo riso mio».

Io era come quei che si risente
di visïone oblita e che s’ingegna
indarno di ridurlasi a la mente,

quand’ io udi’ questa proferta, degna
di tanto grato, che mai non si stingue
del libro che ’l preterito rassegna.

Se mo sonasser tutte quelle lingue
che Polimnïa con le suore fero
del latte lor dolcissimo più pingue,

per aiutarmi, al millesmo del vero
non si verria, cantando il santo riso
e quanto il santo aspetto facea mero;

e così, figurando il paradiso,
convien saltar lo sacrato poema,
come chi trova suo cammin riciso.

Ma chi pensasse il ponderoso tema
e l’omero mortal che se ne carca,
nol biasmerebbe se sott’ esso trema:

non è pareggio da picciola barca
quel che fendendo va l’ardita prora,
né da nocchier ch’a sé medesmo parca.

«Perché la faccia mia sì t’innamora,
che tu non ti rivolgi al bel giardino
che sotto i raggi di Cristo s’infiora?

Quivi è la rosa in che ’l verbo divino
carne si fece; quivi son li gigli
al cui odor si prese il buon cammino».

Così Beatrice; e io, che a’ suoi consigli
tutto era pronto, ancora mi rendei
a la battaglia de’ debili cigli.

Come a raggio di sol, che puro mei
per fratta nube, già prato di fiori
vider, coverti d’ombra, li occhi miei;

vid’ io così più turbe di splendori,
folgorate di sù da raggi ardenti,
sanza veder principio di folgóri.

O benigna vertù che sì li ’mprenti,
sù t’essaltasti, per largirmi loco
a li occhi lì che non t’eran possenti.

Il nome del bel fior ch’io sempre invoco
e mane e sera, tutto mi ristrinse
l’animo ad avvisar lo maggior foco;

e come ambo le luci mi dipinse
il quale e il quanto de la viva stella
che là sù vince come qua giù vinse,

per entro il cielo scese una facella,
formata in cerchio a guisa di corona,
e cinsela e girossi intorno ad ella.

Qualunque melodia più dolce suona
qua giù e più a sé l’anima tira,
parrebbe nube che squarciata tona,

comparata al sonar di quella lira
onde si coronava il bel zaffiro
del quale il ciel più chiaro s’inzaffira.

«Io sono amore angelico, che giro
l’alta letizia che spira del ventre
che fu albergo del nostro disiro;

e girerommi, donna del ciel, mentre
che seguirai tuo figlio, e farai dia
più la spera suprema perché lì entre».

Così la circulata melodia
si sigillava, e tutti li altri lumi
facean sonare il nome di Maria.

Lo real manto di tutti i volumi
del mondo, che più ferve e più s’avviva
ne l’alito di Dio e nei costumi,

avea sopra di noi l’interna riva
tanto distante, che la sua parvenza,
là dov’ io era, ancor non appariva:

però non ebber li occhi miei potenza
di seguitar la coronata fiamma
che si levò appresso sua semenza.

E come fantolin che ’nver’ la mamma
tende le braccia, poi che ’l latte prese,
per l’animo che ’nfin di fuor s’infiamma;

ciascun di quei candori in sù si stese
con la sua cima, sì che l’alto affetto
ch’elli avieno a Maria mi fu palese.

Indi rimaser lì nel mio cospetto,
‘Regina celi’ cantando sì dolce,
che mai da me non si partì ’l diletto.

Oh quanta è l’ubertà che si soffolce
in quelle arche ricchissime che fuoro
a seminar qua giù buone bobolce!

Quivi si vive e gode del tesoro
che s’acquistò piangendo ne lo essilio
di Babillòn, ove si lasciò l’oro.

Quivi trïunfa, sotto l’alto Filio
di Dio e di Maria, di sua vittoria,
e con l’antico e col novo concilio,

colui che tien le chiavi di tal gloria.



Paradiso · Canto XXIV


«O sodalizio eletto a la gran cena
del benedetto Agnello, il qual vi ciba
sì, che la vostra voglia è sempre piena,

se per grazia di Dio questi preliba
di quel che cade de la vostra mensa,
prima che morte tempo li prescriba,

ponete mente a l’affezione immensa
e roratelo alquanto: voi bevete
sempre del fonte onde vien quel ch’ei pensa».

Così Beatrice; e quelle anime liete
si fero spere sopra fissi poli,
fiammando, a volte, a guisa di comete.

E come cerchi in tempra d’orïuoli
si giran sì, che ’l primo a chi pon mente
quïeto pare, e l’ultimo che voli;

così quelle carole, differente-
mente danzando, de la sua ricchezza
mi facieno stimar, veloci e lente.

Di quella ch’io notai di più carezza
vid’ ïo uscire un foco sì felice,
che nullo vi lasciò di più chiarezza;

e tre fïate intorno di Beatrice
si volse con un canto tanto divo,
che la mia fantasia nol mi ridice.

Però salta la penna e non lo scrivo:
ché l’imagine nostra a cotai pieghe,
non che ’l parlare, è troppo color vivo.

«O santa suora mia che sì ne prieghe
divota, per lo tuo ardente affetto
da quella bella spera mi disleghe».

Poscia fermato, il foco benedetto
a la mia donna dirizzò lo spiro,
che favellò così com’ i’ ho detto.

Ed ella: «O luce etterna del gran viro
a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi,
ch’ei portò giù, di questo gaudio miro,

tenta costui di punti lievi e gravi,
come ti piace, intorno de la fede,
per la qual tu su per lo mare andavi.

S’elli ama bene e bene spera e crede,
non t’è occulto, perché ’l viso hai quivi
dov’ ogne cosa dipinta si vede;

ma perché questo regno ha fatto civi
per la verace fede, a glorïarla,
di lei parlare è ben ch’a lui arrivi».

Sì come il baccialier s’arma e non parla
fin che ’l maestro la question propone,
per approvarla, non per terminarla,

così m’armava io d’ogne ragione
mentre ch’ella dicea, per esser presto
a tal querente e a tal professione.

«Dì, buon Cristiano, fatti manifesto:
fede che è?». Ond’ io levai la fronte
in quella luce onde spirava questo;

poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte
sembianze femmi perch’ ïo spandessi
l’acqua di fuor del mio interno fonte.

«La Grazia che mi dà ch’io mi confessi»,
comincia’ io, «da l’alto primipilo,
faccia li miei concetti bene espressi».

E seguitai: «Come ’l verace stilo
ne scrisse, padre, del tuo caro frate
che mise teco Roma nel buon filo,

fede è sustanza di cose sperate
e argomento de le non parventi;
e questa pare a me sua quiditate».

Allora udi’: «Dirittamente senti,
se bene intendi perché la ripuose
tra le sustanze, e poi tra li argomenti».

E io appresso: «Le profonde cose
che mi largiscon qui la lor parvenza,
a li occhi di là giù son sì ascose,

che l’esser loro v’è in sola credenza,
sopra la qual si fonda l’alta spene;
e però di sustanza prende intenza.

E da questa credenza ci convene
silogizzar, sanz’ avere altra vista:
però intenza d’argomento tene».

Allora udi’: «Se quantunque s’acquista
giù per dottrina, fosse così ’nteso,
non lì avria loco ingegno di sofista».

Così spirò di quello amore acceso;
indi soggiunse: «Assai bene è trascorsa
d’esta moneta già la lega e ’l peso;

ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa».
Ond’ io: «Sì ho, sì lucida e sì tonda,
che nel suo conio nulla mi s’inforsa».

Appresso uscì de la luce profonda
che lì splendeva: «Questa cara gioia
sopra la quale ogne virtù si fonda,

onde ti venne?». E io: «La larga ploia
de lo Spirito Santo, ch’è diffusa
in su le vecchie e ’n su le nuove cuoia,

è silogismo che la m’ha conchiusa
acutamente sì, che ’nverso d’ella
ogne dimostrazion mi pare ottusa».

Io udi’ poi: «L’antica e la novella
proposizion che così ti conchiude,
perché l’hai tu per divina favella?».

E io: «La prova che ’l ver mi dischiude,
son l’opere seguite, a che natura
non scalda ferro mai né batte incude».

Risposto fummi: «Dì, chi t’assicura
che quell’ opere fosser? Quel medesmo
che vuol provarsi, non altri, il ti giura».

«Se ’l mondo si rivolse al cristianesmo»,
diss’ io, «sanza miracoli, quest’ uno
è tal, che li altri non sono il centesmo:

ché tu intrasti povero e digiuno
in campo, a seminar la buona pianta
che fu già vite e ora è fatta pruno».

Finito questo, l’alta corte santa
risonò per le spere un ‘Dio laudamo’
ne la melode che là sù si canta.

E quel baron che sì di ramo in ramo,
essaminando, già tratto m’avea,
che a l’ultime fronde appressavamo,

ricominciò: «La Grazia, che donnea
con la tua mente, la bocca t’aperse
infino a qui come aprir si dovea,

sì ch’io approvo ciò che fuori emerse;
ma or convien espremer quel che credi,
e onde a la credenza tua s’offerse».

«O santo padre, e spirito che vedi
ciò che credesti sì, che tu vincesti
ver’ lo sepulcro più giovani piedi»,

comincia’ io, «tu vuo’ ch’io manifesti
la forma qui del pronto creder mio,
e anche la cagion di lui chiedesti.

E io rispondo: Io credo in uno Dio
solo ed etterno, che tutto ’l ciel move,
non moto, con amore e con disio;

e a tal creder non ho io pur prove
fisice e metafisice, ma dalmi
anche la verità che quinci piove

per Moïsè, per profeti e per salmi,
per l’Evangelio e per voi che scriveste
poi che l’ardente Spirto vi fé almi;

e credo in tre persone etterne, e queste
credo una essenza sì una e sì trina,
che soffera congiunto ‘sono’ ed ‘este’.

De la profonda condizion divina
ch’io tocco mo, la mente mi sigilla
più volte l’evangelica dottrina.

Quest’ è ’l principio, quest’ è la favilla
che si dilata in fiamma poi vivace,
e come stella in cielo in me scintilla».

Come ’l segnor ch’ascolta quel che i piace,
da indi abbraccia il servo, gratulando
per la novella, tosto ch’el si tace;

così, benedicendomi cantando,
tre volte cinse me, sì com’ io tacqui,
l’appostolico lume al cui comando

io avea detto: sì nel dir li piacqui!



Paradiso · Canto XXV


Se mai continga che ’l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra,
sì che m’ha fatto per molti anni macro,

vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov’ io dormi’ agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra;

con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
del mio battesmo prenderò ’l cappello;

però che ne la fede, che fa conte
l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi
Pietro per lei sì mi girò la fronte.

Indi si mosse un lume verso noi
di quella spera ond’ uscì la primizia
che lasciò Cristo d’i vicari suoi;

e la mia donna, piena di letizia,
mi disse: «Mira, mira: ecco il barone
per cui là giù si vicita Galizia».

Sì come quando il colombo si pone
presso al compagno, l’uno a l’altro pande,
girando e mormorando, l’affezione;

così vid’ ïo l’un da l’altro grande
principe glorïoso essere accolto,
laudando il cibo che là sù li prande.

Ma poi che ’l gratular si fu assolto,
tacito coram me ciascun s’affisse,
ignito sì che vincëa ’l mio volto.

Ridendo allora Bëatrice disse:
«Inclita vita per cui la larghezza
de la nostra basilica si scrisse,

fa risonar la spene in questa altezza:
tu sai, che tante fiate la figuri,
quante Iesù ai tre fé più carezza».

«Leva la testa e fa che t’assicuri:
che ciò che vien qua sù del mortal mondo,
convien ch’ai nostri raggi si maturi».

Questo conforto del foco secondo
mi venne; ond’ io leväi li occhi a’ monti
che li ’ncurvaron pria col troppo pondo.

«Poi che per grazia vuol che tu t’affronti
lo nostro Imperadore, anzi la morte,
ne l’aula più secreta co’ suoi conti,

sì che, veduto il ver di questa corte,
la spene, che là giù bene innamora,
in te e in altrui di ciò conforte,

di’ quel ch’ell’ è, di’ come se ne ’nfiora
la mente tua, e dì onde a te venne».
Così seguì ’l secondo lume ancora.

E quella pïa che guidò le penne
de le mie ali a così alto volo,
a la risposta così mi prevenne:

«La Chiesa militante alcun figliuolo
non ha con più speranza, com’ è scritto
nel Sol che raggia tutto nostro stuolo:

però li è conceduto che d’Egitto
vegna in Ierusalemme per vedere,
anzi che ’l militar li sia prescritto.

Li altri due punti, che non per sapere
son dimandati, ma perch’ ei rapporti
quanto questa virtù t’è in piacere,

a lui lasc’ io, ché non li saran forti
né di iattanza; ed elli a ciò risponda,
e la grazia di Dio ciò li comporti».

Come discente ch’a dottor seconda
pronto e libente in quel ch’elli è esperto,
perché la sua bontà si disasconda,

«Spene», diss’ io, «è uno attender certo
de la gloria futura, il qual produce
grazia divina e precedente merto.

Da molte stelle mi vien questa luce;
ma quei la distillò nel mio cor pria
che fu sommo cantor del sommo duce.

‘Sperino in te’, ne la sua tëodia
dice, ‘color che sanno il nome tuo’:
e chi nol sa, s’elli ha la fede mia?

Tu mi stillasti, con lo stillar suo,
ne la pistola poi; sì ch’io son pieno,
e in altrui vostra pioggia repluo».

Mentr’ io diceva, dentro al vivo seno
di quello incendio tremolava un lampo
sùbito e spesso a guisa di baleno.

Indi spirò: «L’amore ond’ ïo avvampo
ancor ver’ la virtù che mi seguette
infin la palma e a l’uscir del campo,

vuol ch’io respiri a te che ti dilette
di lei; ed emmi a grato che tu diche
quello che la speranza ti ’mpromette».

E io: «Le nove e le scritture antiche
pongon lo segno, ed esso lo mi addita,
de l’anime che Dio s’ha fatte amiche.

Dice Isaia che ciascuna vestita
ne la sua terra fia di doppia vesta:
e la sua terra è questa dolce vita;

e ’l tuo fratello assai vie più digesta,
là dove tratta de le bianche stole,
questa revelazion ci manifesta».

E prima, appresso al fin d’este parole,
‘Sperent in te’ di sopr’ a noi s’udì;
a che rispuoser tutte le carole.

Poscia tra esse un lume si schiarì
sì che, se ’l Cancro avesse un tal cristallo,
l’inverno avrebbe un mese d’un sol dì.

E come surge e va ed entra in ballo
vergine lieta, sol per fare onore
a la novizia, non per alcun fallo,

così vid’ io lo schiarato splendore
venire a’ due che si volgieno a nota
qual conveniesi al loro ardente amore.

Misesi lì nel canto e ne la rota;
e la mia donna in lor tenea l’aspetto,
pur come sposa tacita e immota.

«Questi è colui che giacque sopra ’l petto
del nostro pellicano, e questi fue
di su la croce al grande officio eletto».

La donna mia così; né però piùe
mosser la vista sua di stare attenta
poscia che prima le parole sue.

Qual è colui ch’adocchia e s’argomenta
di vedere eclissar lo sole un poco,
che, per veder, non vedente diventa;

tal mi fec’ ïo a quell’ ultimo foco
mentre che detto fu: «Perché t’abbagli
per veder cosa che qui non ha loco?

In terra è terra il mio corpo, e saragli
tanto con li altri, che ’l numero nostro
con l’etterno proposito s’agguagli.

Con le due stole nel beato chiostro
son le due luci sole che saliro;
e questo apporterai nel mondo vostro».

A questa voce l’infiammato giro
si quïetò con esso il dolce mischio
che si facea nel suon del trino spiro,

sì come, per cessar fatica o rischio,
li remi, pria ne l’acqua ripercossi,
tutti si posano al sonar d’un fischio.

Ahi quanto ne la mente mi commossi,
quando mi volsi per veder Beatrice,
per non poter veder, benché io fossi

presso di lei, e nel mondo felice!



Paradiso · Canto XXVI


Mentr’ io dubbiava per lo viso spento,
de la fulgida fiamma che lo spense
uscì un spiro che mi fece attento,

dicendo: «Intanto che tu ti risense
de la vista che haï in me consunta,
ben è che ragionando la compense.

Comincia dunque; e dì ove s’appunta
l’anima tua, e fa ragion che sia
la vista in te smarrita e non defunta:

perché la donna che per questa dia
regïon ti conduce, ha ne lo sguardo


 


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